Le nostre classi sono sempre più multietniche e “gestirle” è sempre più difficile, anche se non del tutto impossibile.
Ne parliamo con Letizia Soriano, maestra di scuola primaria a Rimini, con un bel percorso di formazione alle spalle.
Negli ultimi anni ha avuto a che fare con una classe che nel suo blog su Topipittori lei chiama “Porto di mare”
Maestra Letizia, sono tempi difficili, l’esito di uno dei referendum dice che il popolo italiano non è affatto d’accordo a ridurre i tempi necessari per ottenere la cittadinanza; e questo penalizza soprattutto i bambini. Lei cosa ne pensa?
Io credo che, in barba a qualsiasi risultato elettorale, c’è un luogo dove possiamo comunque sperimentare la cittadinanza, l’appartenenza a un gruppo senza permessi e senza autorizzazioni, dove possiamo costruire liberamente la nostra identità. Quello spazio è la scuola.
Ma lei parla per esperienza diretta?
Qualche anno fa avevo una classe composta da bambini provenienti da nove paesi diversi, Marocco, Senegal, Albania, Cina, Macedonia, Bangladesh, Pakistan, Repubblica Ceca, Ucraina, con un solo bambino italiano del quale non eravamo mai davvero sicuri. C’era qualcuno che a volte diceva: “Maestra, ma lui non è italiano, ha detto che viene dalla Puglia”.
Ed è con quella classe che lei si è inventata l’idea delle carte d’identità. Di che cosa si tratta?
In quella classe molti erano italiani di seconda generazione, molti altri erano appena arrivati e quindi erano bambini senza documenti. E quando in una classe arriva un bambino di un altro Paese, non arriva solo lui, ma arrivano una nuova famiglia, un’altra cultura, un’altra lingua. In altre parole arriva un pezzo di mondo. Comunque ho fatto una cosa molto semplice che però, come spesso accade per le cose semplici, aveva un significato grande.
Ho iniziato ad usare un libro delle edizioni Topipittori che si intitola Il paese degli elenchi. E’ la storia di una scuola che va all’ufficio elenchi del signor Fermo Sicurini, un uomo molto preciso che ha bisogno di catalogare tutti, di inserire tutti nei suoi elenchi. E allora la domanda è: ma chi non è in nessun elenco esiste lo stesso?
Il signor Sicurini per fare in modo che tutti possano esistere cerca di fare in modo che tutti trovino posto in un elenco. Ed io mi sono chiesta: ma i miei alunni sentono tutti di esistere davvero?
Ed è qui che le è venuta l’idea di trasformare la vostra classe in una micronazione…
Esattamente, ed io mi sono autonominata presidente di questa micronazione proponendo ai bambini e alle bambine di fare la propria carta di identità; ognuno ha annotato i propri dati sulla carta, l’altezza, il colore degli occhi e dei capelli, l’indirizzo (qualcuno ha messo un dato inventato). Poi abbiamo allestito il bancone dell’ufficio anagrafe, tutti i bambini si sono messi in fila ed io ho timbrato e firmato tutte le carte. Da quel momento tutti sono diventati anche ufficialmente cittadini della nostra micronazione.
Insomma mi è sembrato importante iniziare con una cosa piccola, cioè li ho riconosciuti cittadini della mia classe dicendo: “Iniziamo di qui e poi vediamo se nel tempo riusciamo a fare qualcosa di più per voi”.
Per ideare e realizzare il suo progetto di inclusione quanto le è servita la sua esperienza pregressa?
Tantissimo: io avevo lavorato per 15 anni al CEIS, il Centro educativo italo-svizzero nato alla fine degli anni ’40 grazie ad una geniale intuizione della pedagogista Margherita Zoebeli, che è stata certamente fra i primi ad affrontare il tema della inclusione.
Poi ho avuto modo di collaborare con Andrea Canevaro che al CEIS era di casa. Con lui avevo partecipato ad un importante progetto di cooperazione internazionale che si era realizzato in Palestina, nella striscia di Gaza. Si trattava in quel caso di lavorare pel l’inclusione di bambini palestinesi con disabilità, in un contesto difficilissimo, con classi di 50-60 alunni affidati a un solo maestro. In quegli anni ho imparato davvero tanto.
Lei aveva in classe bambini e bambine di molti Paesi diversi. Con la lingua come ve la siete cavata?
E’ successa un cosa molto particolare perché nella classe si erano formati spontaneamente dei piccoli gruppi di bambini della stessa lingua. Ad un certo punto io mi sono accorta che quando mi rivolgevo a qualcuno di loro, quelli che conoscevano l’italiano un po’ meglio cercavano di aiutare i nuovi arrivati; ma alle volte lo facevano di nascosto. Ho capito che dovevo sfruttare bene questa cosa e così ho iniziato a formare gruppi più “ufficiali” ciascuno dei quali aveva un vero e proprio interprete. E così, per esempio, i bambini bengalesi che avevano bisogno di qualcosa si rivolgevano all’interprete che poi veniva da me a sottopormi il problema.
Ed ho usato questa strategia anche per i momenti più formali, come per esempio le lezioni vere e proprie.
Veniamo ad una questione più generale. Sono uscite le Nuove Indicazioni nazionali; il Ministro, gli esperti della Commissione Perla dicono che gli stranieri che abbiamo nelle nostre scuole devono in qualche modo diventare italiani a tutti gli effetti, e cioè devono conoscere e amare anche loro la nostra storia passata. Ma è davvero possibile che bambini provenienti dal Pakistan, dalla Macedonia o dal Senegal diventino italiani in quel senso? Oppure la strada da percorrere è un’altra?
Basandomi sulla mia esperienza, posso dire che questi bambini vogliono diventare italiani perché io credo che chi è diverso abbia un unico desiderio, e cioè essere come gli altri. Ma, per essere come gli altri, prima di tutto devono essere se stessi. Certamente non si tratta di consentire alle persone che arrivano da altri paesi di imporre a noi la loro cultura ma dobbiamo lasciare però che possano portarla a noi in un modo delicato.
Se capisco bene, lei parla di scambio di culture e non di assimilazione…
Esattamente, è un percorso che può fare bene a tutti; non è un discorso di pietismo o di compassione; è un discorso umano.
Chiuderei con una domanda alla quale è impossibile rispondere, ma ci proviamo lo stesso. Lei ha lavorato per 15 anni al CEIS, ha respirato aria “zoebeliana”; secondo lei se oggi Margherita Zoebeli fosse viva come giudicherebbe la situazione delle nostre scuole proprio dal punto di vista dei processi di integrazione? Sarebbe contenta, sarebbe soddisfatta oppure lei penserebbe che manca ancora molto rispetto all’ideale che lei aveva in mente?
Non credo che sarebbe particolarmente contenta perché nonostante dal punto di vista teorico sia tutto perfetto, poi dal punto di vista pratico purtroppo ci sono delle grosse falle. Lei spesso diceva che è inutile pensare bene e poi agire male. Ecco, credo che nella scuola italiana ci sia molto bisogno di azioni più coerenti rispetto ai principi ai quali tutti dicono di ispirarsi.
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