Diversi genitori oggi non risultano invadenti solo scuola, ma in tutti gli ambiti dove sono presenti i figli: accade così che aggrediscono gli insegnanti, come pure gli arbitri delle gare dei loro “pargoli”. A volte passano alle maniere forti anche con i ragazzi, coetanei dei figli con cui stanno facendo sport. Così è andata a Collegno, in provincia di Torino, dove il padre di un giocatore di una squadra di calcio giovanile ha scavalcato la recinzione ed è arrivato a colpire con forza il giovane portiere avversario di appena 13 anni, mandandolo in ospedale procurandogli la frattura del malleolo e dello zigomo.
Si tratta di un episodio che ha suscitato indignazione non solo nel mondo sportivo, ma anche tra psicologi ed educatori. “Un papà non può entrare in campo e picchiare un ragazzo”, ha detto Giancarlo Marenco, presidente dell’Ordine degli psicologi del Piemonte. “Qui non si tratta di difendere un figlio, ma di non saper accettare che un ragazzo incontri ostacoli e difficoltà”.
Secondo l’esperto, il problema riguarda non solo lo sport ma anche la scuola.
Tanto che lo stesso Ministero dell’Istruzione e del Merito, nelle sue linee guida sulla collaborazione scuola-famiglia, sottolinea come i genitori debbano svolgere un ruolo di accompagnamento e sostegno, non di sostituzione o conflitto con gli insegnanti.
Eppure, sempre più spesso, le cronache raccontano episodi in cui un voto negativo diventa il pretesto per attacchi diretti al docente, stravolgendo così i ruoli educativi.
A conferma di ciò, secondo Marenco, il danno maggiore non è tanto quello inflitto alla vittima dell’aggressione, quanto quello che subiscono i figli di questi soggetti violenti: “Un figlio che vede il proprio padre insultare un arbitro o picchiare un avversario, o peggio ancora un insegnante, non si sente protetto ma prova vergogna. Impara che la violenza è una scorciatoia, invece di capire che gli errori e le sconfitte fanno parte di un percorso di crescita”.
Anche l’Ordine Nazionale degli Psicologi ricorda che un comportamento aggressivo da parte di un genitore interferisce con il processo di crescita del figlio, impedendogli di sviluppare resilienza e capacità di affrontare i conflitti.
Anche il mondo sportivo si interroga. Il Coni ha redatto la Carta dei diritti dei bambini nello sport, in cui viene ribadito che l’attività giovanile deve essere prima di tutto occasione di educazione, divertimento e rispetto reciproco.
Un principio richiamato anche dall’Associazione Italiana Arbitri, che ha definito quanto accaduto a Collegno “un atto vile e inqualificabile”.
Ma oltre alle conseguenze psicologiche ed educative, c’è un aspetto che i genitori non dovrebbero dimenticare: la legge. Episodi come quello di Collegno, con lesioni superiori a 40 giorni (determinate dal referto del pronto soccorso), rientrano infatti nel reato di lesioni personali previsto dall’articolo 582 del Codice Penale.
La norma stabilisce che “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Se ad essere colpito duramente è un minore, si procede d’ufficio anche con “soli” 20 giorni di prognosi e le pene possono aggravarsi ulteriormente.
Una cosa è certa, l’episodio di Collegno, su cui stanno indagando i carabinieri, diventa allora un campanello d’allarme per tutti gli adulti: il compito dei genitori, è bene ribadirlo, non è eliminare gli ostacoli dal cammino dei figli, ma sostenere in modo costante e genuino i figli stessi mentre imparano a superare gli ostacoli della vita.
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