Didattica

Il dialetto a scuola, per Sciascia bisogna “accettare la sua ritirata”

Alcuni lustri addietro, dall’Assessorato regionale all’istruzione della Sicilia fu annunciato che il dialetto siciliano sarebbe entrato come materia di studio nelle scuole: il recupero delle tradizioni e di una “lingua” che stava per perdersi del tutto, come punto qualificante dell’azione di un governo regionalista, legato alla propria più pregnante originale cultura.

Fu proposto addirittura di usare il siciliano durante le messe al posto dell’italiano o del latino. La scuola, dunque, leva importante, ancora una volta, per un progetto di “portata storica”: applausi e congratulazioni da molti ambiti, ma a conti fatti non si è visto nulla da nessuna parte, né in nessuna aula. 

Il solito annuncio propagandistico senza dati fattuali. E non poteva essere altrimenti, considerato pure che la stessa lingua italiana stenta a essere capita e scritta dai nostri alunni, come dimostrano i dati Ocse-Pisa.

D’altra parte lo stesso Leonardo Sciascia, ricordato in questi giorni nel centenario della nascita, aveva detto che il dialetto riguarda i sentimenti più intimi e che “nessun’opera di pensiero può essere scritta in dialetto”. Ma non solo, affermava pure che occorreva “accettare l’avanzata della lingua italiana e la ritirata dei dialetti, senza alcun rimpianto”, chiosando: “non farei nulla perché i giovani tornassero ad usarlo”. 

Insegnarlo a scuola avrebbe in ogni caso preteso un’abilitazione e una classe di concorso, che non esistono, e ore in più nel curricolo, che impossibile aumentare, tranne in ore non scolastiche con fondi Por ad hoc stanziati. Ma sempre con l’incertezza di trovare docenti preparati a dovere, classici su cui discutere, testi filologici autorevoli, che ci sono, pochi, ma di cui si deve avere conoscenza. 

Proposte al vento, tanto per dirottare l’attenzione dai veri e grandi problemi della scuola, che la pandemia ora sta rischiarando.

Pasquale Almirante

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