L’articolo “Gli alunni al rogo e l’esasperazione del prof” invita a riflettere e dibattere. L’azione del docente in oggetto forse non è da approvare e condividere, ma quantomeno da comprendere. Sì, perché solo la disperazione può indurre a compromettersi così gravemente. Ritengo che il collega in questione sapesse che il suo gesto potrà avere per lui conseguenze assai gravi, ma – come si dice – bisogna togliersi i sassolini dalle scarpe, quando ce vo’ ce vo’.
Ho frequentato le elementari in una scuola di Stato dal ’65 al ’70 e ricordo che maestri e maestre non lesinavano scappellotti o “reclusioni” nell’angolo con la faccia al muro oppure nel famigerato banco dell’asino. Sebbene io fossi un bambino alquanto tranquillo qualche volta è toccato anche a me. Senza drammi, senza sentirmi umiliato e senza che nel corso degli anni successivi mi siano venuti complessi o frustrazioni. Anzi: raramente lo dicevo a casa perché la risposta era: “cosa hai combinato??”, seguita da uno schiaffone.
In particolare ci fu un periodo in terza elementare (2-3 mesi) in cui quasi giornalmente la maestra mi infliggeva una nota disciplinare sul “quaderno giallo” (era una sorta di diario con la copertina per l’appunto gialla) e quando mio padre veniva a prendermi a scuola indicava col dito la cartella come a dire: “oggi hai preso la nota?”. Se la risposta era sì ecco che arrivava immancabile la sberla, seguita da un’altra di mia madre una volta a casa.
Quando ne ho avuto abbastanza di ceffoni sono rientrato nei ranghi e non ho mai più preso note disciplinari. Direi che la “cura” mi sia servita.
Daniele Orla
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