La Corte di Cassazione ha depositato una sentenza interessante che riguarda una vicenda di “straining” o mobbing attenuato in un istituto comprensivo di Brescia che per motivi di salute era stata dichiarata inidonea all’insegnamento e, di conseguenza, assegnata agli uffici della segreteria della stessa scuola.
L’insegnante in questione, una volta assegnata all’incarico, aveva fatto presente al preside la necessità di personale aggiuntivo per l’espletamento dei servizi amministrativi. La risposta del dirigente, tuttavia, è stata ostile: le ha sottratto strumenti di lavoro, assegnato mansioni didattiche nonostante l’inidoneità e infine ha privato la docente di ogni mansione, lasciandola totalmente inattiva. La questione è approdata prima al Tribunale di Milano, dove è stata accertato che, pur non trattandosi di mobbing, la vicenda poteva essere ricondotta a straining, ovvero “stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio”, si legge sulla sentenza, riportata anche dal Sole 24Ore.
Ad opporsi alla sentenza il Ministero, che, ricorrendo in Cassazione, sottolinea il fatto che lo straining “non costituisce una categoria giuridica”, essendo controversa la sua configurabilità anche in medicina legale. Pertanto, non trattandosi di mobbing, ovvero di comportamenti vessatori sistematici e reiterati, non era possibile un risarcimento del danno in favore dell’insegnante.
Ma la Corte di Cassazione non ritiene plausibile la posizione del Miur. Infatti, viene rigettato il ricorso presentato dal Ministero sottolineando l’interpretazione, ad opera della giurisprudenza di legittimità, dell’articolo 2087 c.c., norma che impone al datore di adottare misure adeguate per la tutela delle condizioni di lavoro.
Per i giudici non esiste differenza tra mobbing e straining, dato che quest’ultimo è “una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie”.
Infatti, in entrambi i casi sussistono azioni produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore. Il datore di lavoro, che in questo caso è il preside, ha l’obbligo di astenersi dal compiere ogni condotta che leda il diritto alla salute, alla dignità umana e tutti i diritti inviolabili della persona, nonché “di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo” tali diritti della persona. Di conseguenza, concludono i giudici, è ben fondata la pretesa risarcitoria della docente, in quanto la privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, l’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute e, infine, la riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità costituiscono una palese violazione dell’Amministrazione scolastica degli obblighi su di essa incombenti quale datore di lavoro.
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