Home I lettori ci scrivono Anno 2030, fine della scuola pubblica?

Anno 2030, fine della scuola pubblica?

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Nel 1966 alcuni studenti del liceo Parini di Milano furono processati, ne parlarono per mesi i giornali italiani e stranieri. Di che si trattava? E chi se ne importa! Penserà qualcuno, con tutti i problemi che ci sono al giorno d’oggi…

E difatti la scuola non rappresenta più un problema, poiché da anni non è più centrale nella società.

La scuola, nella percezione della classe dirigente degli ultimi decenni, ha senso poiché deve preparare al mondo del lavoro. Il resto non conta. L’alternanza scuola lavoro, il PCTO (percorso per le competenze trasversali e l’orientamento) imposto per legge (invece di lasciare libere le scuole di scegliere se e come farlo), rientrano perfettamente in questa visione: meno scuola e più lavoro. Nelle varie scuole in cui ho lavorato negli ultimi anno ho avuto modo di toccare con mano belle esperienze di alternanza (o pcto), merito di docenti competenti e di brillanti studenti. Ma è l’idea di fondo che, a mio parere, non va bene.

E poi il PNRR (scuola 4.0), orientato alle “professioni del futuro”, con un approccio al digitale forse un po’ troppo ideologico. Inoltre recentemente sono state imposte, per legge, 30 ore di orientamento l’anno in tutti i cinque anni di scuola superiore. E comunque già le scuole facevano tante ore di orientamento. Numerosi licei (in modo sperimentale) stanno già avendo una durata di quattro anni anziché cinque, in nome della competitività sul mercato del lavoro europeo.

Tutto rientra in una visione di scuola pubblica come istituzione marginale, che serve solo a preparare al lavoro. Si dirà: che male c’è? Non vorrai mica creare un esercito di giovani disoccupati!

Ovviamente trovare un lavoro è importante, sapersi collocare in modo appropriato nel mondo produttivo è fondamentale per i giovani. Oltre alla retribuzione, il lavoro contribuisce alla costruzione dell’identità personale e sociale.

Ma non può essere questa la funzione principale della scuola.

Studiare per il gusto di farlo, confrontarsi, avere tempo per sperimentare, per sbagliare, correggersi e magari sbagliare di nuovo. Lasciare tempo alla meraviglia per la scoperta di una verità sinora ignorata. Leggere una poesia scritta secoli fa, ma che parla proprio di quei sentimenti profondi che dimorano in noi oggi. Risolvere un problema di fisica, intuendo una realtà profonda dietro le apparenze. Elaborare faticosamente gli strumenti per capire il mondo. Sviluppare spirito critico, non accettare le soluzioni più comode. Aprire la mente. Queste cose si continuano ancora a fare, ma sono sempre più percepite come superflue.

Il processo per oscenità del 1966 inflitto agli studenti milanesi fu per un articolo pubblicato nel giornalino della scuola (La Zanzara) intitolato: Cosa pensano le ragazze oggi? Si parlava di amore, di sessualità, di libertà, di regole sociali, con un linguaggio assolutamente pacato e corretto. Lo scontro fu tra un’Italia un po’ retrograda e un’Italia più dinamica, con i giovani che volevano riflettere oltre gli schemi precostituiti. Il preside, prof. Mattalia, processato anch’egli, avrebbe potuto dissociarsi, invece difese gli studenti perché “… Le finestre della scuola sono aperte al mondo”.

Quest’espressione può suonare un po’ logora e desueta. Ma è proprio questa la funzione della scuola, aprire le finestre delle menti (e dei corpi) al mondo.

Se questo viene meno, allora la scuola pubblica può tranquillamente chiudere. Ma voglio sperare che nel 2030 esista ancora.

Massimo Bellucci