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Fare il docente oggi: un mestiere impossibile

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Il lavoro degli insegnanti rientra tra quelli che Freud considerava i mestieri impossibili: psicanalizzare, governare, educare.

Alla difficoltà intrinseca di questo mestiere si aggiunge il cambiamento culturale che ha determinato la riduzione del rispetto del principio di autorità e la riduzione del prestigio sociale degli insegnanti.

Se poi questo lavoro lo si svolge in contesti sociali particolarmente complessi, dove i bambini e gli adolescenti vivono situazioni di disagio e di deprivazione socio-culturale o addirittura di violenza, il compito è davvero molto molto difficile.

Un compito che tanti insegnanti affrontano quotidianamente con passione e coraggio.

La difficoltà però si amplifica fino all’impossibilità quando gli insegnanti si ritrovano in una situazione di isolamento, quando non c’è un lavoro di squadra, quando non c’è un buon livello di collaborazione all’interno delle scuole.

Non esistono eroi, ma persone che con passione, tenacia e determinazione, condividendo le difficoltà e cercando insieme le soluzioni cercano di affrontare situazioni difficili.

Se però vengono lasciate da sole o addirittura parte il fuoco amico di chi attacca coloro che evidenziano le criticità o propongono qualcosa di diverso dall’ordinario, ecco che subentra il senso di impotenza e a volte anche la depressione. Non a caso quella degli insegnanti è diventata la categoria a più alto rischio di burnout.

La vicenda dell’insegnante che è stata sospesa dalla sua dirigente per aver compiuto il sacrosanto dovere di denunciare palesi maltrattamenti nei confronti di una bambina di 6 anni è uno di questi casi, ma probabilmente, purtroppo, è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio, caratterizzato da situazioni analoghe, anche se meno gravi, vissute quotidianamente da tanti insegnanti che cercano di compiere nel modo migliore il proprio dovere nei confronti dei bambini che vengono loro affidati e che trovano ostacoli di ogni tipo.

La carenza di risorse e di personale crea Infatti spesso dei vincoli e delle difficoltà che si aggiungono alle criticità del contesto e a quelle intrinseche del mestiere dell’insegnante.

Immaginiamo (ma probabilmente per molti non è immaginazione, ma cruda realtà) di dover insegnare in una scuola in cui decine di segnalazioni relative alla sicurezza rimangono inascoltate, dove dal soffitto arriva acqua e cadono pezzi della controsoffittatura, dove ad un certo punto chiudono la scuola e quel territorio rimane privato del plesso scolastico che storicamente aveva costituito un presidio di educazione e di legalità; immaginiamo di essere trasferiti in un’altra scuola in cui anche lì si incontrano problemi gravi: muri ammuffiti che scaricano quotidianamente pezzetti di calcinaccio, spogliatoi della palestra inagibili che costringono i ragazzi a cambiarsi nei bagni o nelle aule; immaginiamo di avere una carenza di personale ATA, sia nella segreteria, che ritarda enormemente la nomina degli insegnanti – al punto che gli ultimi vengono nominati dopo più di un mese e mezzo dall’inizio della scuola- sia di collaboratori scolastici per cui gli ambienti non vengono adeguatamente vigilati e puliti; immaginiamo dirigenti scolastici che invece di dirigere una scuola ne dirigono otto o più, oberati dagli impegni relativi alla sicurezza e alla privacy e che riescono a ritagliare solo una piccola parte del loro tempo alla didattica (la loro formazione e selezione è peraltro ormai incentrata quasi esclusivamente su aspetti normativi e gestionali lasciando pochissimo spazio a quelli pedagogici); immaginiamo di voler proporre in questa situazione metodologie didattiche diverse dalla classica lezione frontale, consapevoli del fatto che in una scuola che vede la presenza di allievi con difficoltà di ogni genere la diversità dei destinatari richiede anche una diversità dal punto di vista delle proposte didattiche e delle metodologie di insegnamento, e non riuscirci perché le difficoltà esistenti inducono a cercare la mera sopravvivenza in classi difficili da gestire.

Classi dove occorrerebbe avere competenze relazionali e metodologico-didattiche molto avanzate, ma dove bisogna prima preoccuparsi del fatto che se si permette ad un allievo di andare in bagno ci si prende una responsabilità enorme, perché non ci sono sufficienti collaboratori scolastici per vigilare nei corridoi e dove il tentativo di educare al rispetto dell’ambiente si scontra con aule non pulite da giorni.

In questa situazione spesso il tentativo di proporre ad un consiglio di classe interventi non puramente repressivi, ma anche un’azione pedagogica, fondata su evidenze scientifiche, non trova spazio, perché tutte le energie sono dedicate a gestirsi le difficoltà pratiche quotidiane e in un tale contesto anche il tentativo di fare dei passi nella direzione di una scuola più inclusiva, ponendo dei problemi relativi alla presenza di barriere architettoniche o alla carenza di riunioni specifiche per gli allievi con disabilità, peraltro previste dalla legge, si scontra con atteggiamenti di ostilità.

Succede così che la pedagogia non trovi spazio proprio laddove dovrebbe essere il punto di riferimento fondamentale.

Spesso ci si riduce alla pura organizzazione formale e burocratica con la compilazione di documenti di ogni tipo e la realizzazione di riunioni per attuare adempimenti formali, ma non ci si confronta quasi mai per l’analisi delle situazioni e la ricerca di soluzioni fondate su un minimo di quadro di riferimento teorico e su evidenze scientifiche.

Probabilmente sono inoltre rarissime le scuole dove esiste una funzione strumentale di supporto ai docenti, che si occupi di aiutare colleghi in difficoltà, in virtù di una maggiore esperienza e preparazione da un punto di vista pedagogico.

Un ascoltatore della trasmissione prima pagina di Rai 3 del giorno 28 ottobre 2019 affermava che al MIUR non ci sono pedagogisti e la sua funzione è solo quella di ufficio di collocamento. Non so se sia davvero così, ma dalla periferia la sensazione è davvero questa.

D’altra parte l’affermazione del precedente ministro Bussetti, per cui per insegnare è sufficiente una laurea è significativa della scarsa importanza che viene data alle scienze dell’educazione nella formazione degli insegnanti e di quanto poco interessi una scuola che sia davvero di qualità.

Se a tutto questo aggiungiamo la più bassa percentuale di PIL investito nella scuola rispetto agli altri paesi europei, possiamo comprendere il motivo dei risultati disastrosi del nostro sistema formativo, nel quale, rispetto ad altri paesi europei, pochi riescono ad arrivare a laurearsi e la dispersione scolastica palese ed occulta ci colloca tra i peggiori paesi nell’ambito OCSE.

Quasi tutti gli interventi derivanti dalle riforme degli ultimi dieci anni hanno peraltro prodotto danni: a partire dagli 8 miliardi tagliati nel 2009 dalla riforma Berlusconi-Tremonti-Gelmini, fino alla riforma Renzi (legge 107 del 2015) che a fronte di poche risorse aggiunte ne ha tolte altre e soprattutto ha concluso l’opera iniziata durante il ministero Gelmini, verso una scuola concepita non secondo principi pedagogici, ma seguendo l’ideologia del libero mercato e della scuola organizzata secondo principi aziendali (che in realtà neanche in un’azienda ben organizzata vengono applicati) come il bonus premiale in denaro al singolo.

Un’idea che contraddice quelle ricerche che hanno individuato non nelle scuole dove c’è forte competizione interna, ma in quelle dove c’è un alto livello di collaborazione, la possibilità di offrire un servizio di alto livello qualitativo, che consiste in una scuola dove tutti possano avere successo nel loro percorso di apprendimento e formarsi non solo dal punto di vista delle competenze lavorative, ma anche come liberi cittadini e liberi pensatori.

Se guardiamo alle scuole dei paesi che ottengono i migliori risultati nelle rilevazioni OCSE PISA non vediamo scuole-aziende, ma formazione pedagogica e attenzione verso i bisogni formativi degli allievi.

Abbiamo bisogno di uscire dal tunnel di una scuola in cui gli insegnanti migliori vengono maltrattati e sospesi dal servizio, come l’insegnante che ha fatto ricorso al Tribunale di Pavia, dopo essere stata sospesa per aver denunciato i maltrattamenti su una bambina o come la professoressa Dell’Aria di Palermo, che ha aiutato i propri allievi a sviluppare forme di pensiero critico invece di reprimerne le idee e come tanti altri che tutti i giorni vivono il peso di un mestiere difficile, in contesti difficili, con carenza di risorse umane e materiali, in ambienti degradati e insicuri, senza il supporto della condivisione, della riflessione e della progettazione comune, e si vedono attaccati perché fanno il proprio dovere nel rispetto delle leggi e dell’etica.

Quando usciremo da questo tunnel allora forse riusciremo ad avere una scuola migliore.