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Giulia Cecchettin e la violenza sulle donne, così la scuola è ritornata al centro della scena

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L’onda emotiva che ha seguito l’assassinio di Giulia Cecchettin, che ci ha travolto tutti, ha prodotto prima l’immediato e unanime via libera della legge che introduce una stretta per arginare le violenze sulle donne, poi un progetto scolastico (extracurriculare e facoltativo) «contro il maschilismo» per educare gli studenti alle relazioni e al rispetto, della durata di 30 ore, cioè di media un’ora alla settimana.

Interventi importanti, che dicono la crescente preoccupazione ma anche la volontà di porvi un argine.
E qui la scuola è stata invocata perché considerata un filtro attraverso cui passano tutti i bambini ed i ragazzi.
Questo naturale riconoscimento, però, si sta portando dietro una considerazione che dovrebbe altrettanto preoccupare. Perché oggi la scuola viene richiesta per dare una mano sul tema della “educazione alla affettività”, ma al contempo viene di continuo invocata per dare una mano su tanti altri campi. Penso ad alimentazione, salute, razzismo, finanziaria, droghe, sessuale, stradale, legalità, e così via. Così si incorre nel rischio di una sorta di ingorgo.

Per cui, alla fine, la scuola dovrebbe da un lato garantire una buona preparazione di base, culturalmente adeguata, e dall’altro fare da interfaccia alle criticità sociali. Credo sia giusto fermarsi un attimo, e prendere fiato, prima di infilarsi in un tunnel senza ritorno. Per ricalibrare il suo ruolo centrale della formazione e nell’educazione delle giovani generazioni. Sapendo, infine, che è quanto meno problematico concentrarsi sui bambini e sui ragazzi se nel contempo non è tutto il tessuto sociale, a partire dalle famiglie, che si lascia educare.
Perché è solo educandosi che possiamo educare, cioè (ex-ducere) tirare fuori il meglio della nostra umanità, per prevenire le tragedie e le criticità.

Insomma, non si può scaricare sulla scuola tutto l’educabile, perché, partendo dalle famiglie, è, con un proverbio africano, tutto il villaggio che è chiamato a questo compito. Continua a colpirmi, cioè, la perentorietà di molti su questo nuovo compito della scuola nella società odierna. Primo perché non conoscono la scuola, poi perché vorrebbero scaricare su di essa una responsabilità di tutti. Mi ha colpito insomma la perentorietà: “la soluzione c’è: la scuola! Per fare che cosa? Per educare”. Come se la scuola, questo il giudizio universale di alcuni, non avesse fatto “nulla o niente”.

E’ evidente che così dicendo, lo ripeto, si dimostra di non conoscerla, segnata nel contempo anche dal dibattito che riemerge di tanto in tanto, in nome di un male inteso “merito”, sulla richiesta di ritornare cioè alla scuola di ieri, fatta di sola istruzione, su un modello prestazionale puro, lasciando perdere la “deriva”, secondo costoro, delle tante “educazioni” che accompagnano la scuola di oggi.

Quelle “educazioni” invocate invece emotivamente un po’ da tutti proprio in questi giorni.
La scuola oggi fa già molto, ma deve essere chiaro che non può fare tutto. Non può ad esempio sostituirsi alle famiglie.
Propone già momenti di riflessione e di approfondimento, con progetti mirati e culturalmente formativi, predispone poi programmazioni, in alcune materie, che aiutano lo studio personalizzato, organizza minuti di silenzio e manifestazioni aperte, ma più oltre non può andare.
Perché la scuola non è tutto.

Lo ripeto, ad educare è il villaggio. Anzitutto quindi le famiglie e le mille realtà sociali.
Mi è già capitato più volte di incontrare genitori inizialmente interessati solo allo studio come prestazione, con voti e pagelle e titoli di studio. Per poi ricredersi alla prima difficoltà di un figlio o figlia, tanto da aggrapparsi alla scuola anche solo, a volte, per un ascolto, per uno scarico di tensione, per un consiglio, per un colloquio.
Sono anni che le scuole organizzano inoltre forme di consulenza psicologica, non solo per gli studenti.
Quindi la scuola, a volte ingiustamente bistrattata, la sua parte la sta già facendo.

Ma oggi sono molte famiglie ad essere in crisi, anche per la fragilità delle “evidenze etiche e sociali”.
Quanti si accorgono la fatica di stare, da parte di tanti ragazzi e adolescenti, dentro i possibili no, le sofferenze, le frustrazioni. Vissuti, compresi i brutti voti o le bocciature, come sconfitte personali.
Mi ha colpito il tono del dibattito di questi giorni perché, se guardiamo all’efficacia mai scontata di un contatto educativo, non basta il discorso retorico, direttivo, ma conta il fare insieme, lo stare insieme, il camminare insieme.

Nelle famiglie, nelle coppie, nelle relazioni, poi anche a scuola, nel lavoro, nei mille interstizi sociali.
Sullo sfondo siamo noi adulti che facciamo fatica a stare dentro le difficoltà. Non basta l’apparire, non bastano i successi e le perfomance. Non bastano i miti odierni, celebrati nei reality.
Non bastano. E questo non bastare dice tutta l’umanità di un senso del vivere che continuiamo a cercare nonostante i tempi che viviamo, dato lo sfarinamento delle vecchie certezze.