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I processi di inclusione sono ormai arrivati al capolinea, bisogna cambiare rotta. Iosa parla di “grande malattia” [INTERVISTA]

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Il modello italiano di inclusione scolastica sta segnando il passo, anzi forse è addirittura “arrivato al capolinea”.
A sostenerlo con convinzione è Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico, responsabile per anni dell’Osservatorio nazionale sull’handicap.

Perché lei si è fatto questa convinzione?

Basta guardare i numeri forniti dall’Istat proprio in questi giorni.
Nel 2022/23 gli alunni con disabilità dalla scuola dell’infanzia alle superiori erano 338mila, il 7% in più dell’anno scolastico precedente. Per la prima volta nella storia dell’inclusione il numero degli alunni con disabilità supera il 4% della popolazione scolastica.

Lei hai coniato un termine per descrivere questa situazione

Negli ultimi 20 anni alunni e studenti con disabilità sono triplicati.
Nel 2000/2001 erano 126mila (1,3% della popolazione scolastica complessiva); nel 2010/2011 siamo passati a 208.520 (2.3%), nel 2022/2023 siamo arrivati a 338mila (4.1% della popolazione scolastica).
E’ un dato cui ho prestato attenzione da molto tempo e che ho chiamato in molti miei scritti “l’epoca della grande malattia”, cercando di comprendere le ragioni sociali, cliniche, antropologiche, di questa esplosione.

E a quale conclusione è arrivato?

Siamo di fronte ad una perversa e poco studiata medicalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Domina il mito dell’eziologia genetica e (come spesso capita se non si hanno prove certe) dell’epigenetica. Dunque una colpa chimica e biologica, che frammenta l’umano in sintomi circoscritti, perdendone l’unitarietà olistica.

Tutto questo senza considerare i soggetti con DSA…

Nel 2010 con la 170 (una legge a mio parere iatrogena) si introdusse la neo categoria medicale dei D.S.A. (dislessia, disgrafia, ecc..). L’intenzione era di “dare aiuto” ai ragazzini dislessici, che io da buon figlio di Vigotsky mai avrei chiamato “disturbati” (avrei parlato piuttosto di “difetti”). Si inventò la categoria quasi metafisica dell’aiuto didattico dispensativo e compensativo con un’esplosione di conflittualità nuove tra scuola e famiglie su cosa volesse dire, con conflitti e cause in tribunale. Oggi questi ragazzini con DSA sono ormai superiori ai 320mila certificati; ma non basta: per una scelta tutta ministeriale e non politica nel 2012 si inventò la categoria dei cd. BES, contenente studenti con “disturbi” i più vari non catalogabili dalla clinica, ma a cui concedere il dispensativo e compensativo.
Tenendo conto che la categoria “Bes” non ha dati precisi raccolti, si può comunque sostenere che abbiamo oggi in Italia almeno un milione di bambini e ragazzi considerati “speciali” da coprire con una certificazione e una didattica “speciale” o forse meglio verrebbe da dire “non-normale”.

Qual è la conseguenza?

Che si sta assistendo nella scuola ad un processo di separazione-isolazione dei giovani umani secondo categorie cliniche sempre più invadenti, centrate sul “sintomo”, con lo sviluppo di una neo-burocrazia pedagogica, fatta di carte, riunioni, programmazioni separate. Una normativa barocca e ovviamente nuove cause giudiziarie su quanto dispensare e compensare.

Nel medio periodo (diciamo 3-4 decenni) cosa potrebbe accadere?

Ormai è diffuso negli adulti italiani un pessimismo fatale circa l’idea che essere piccoli e giovani oggi è più di sempre nella storia “una grande malattia”. Può essere anche questo, tra le varie cause, motivo del calo demografico? Avere un figlio appare sempre di più un rischio da evitare, piuttosto che un sogno?

E sul piano organizzativo e didattico cosa significa tutto questo per la singola scuola?

Significa che ormai si è consolidata l’idea che l’insegnante di sostegno sia l’unica soluzione all’inclusione dei disabili, che tocca a lui/lei sapere e insieme saper fare (non parliamo poi dei circa 70.000 educatori, per lo più laureati triennali in pedagogia) dipendenti da cooperative sociali pagati ben sotto i 9 euro/ora.
E così sta di fatto dilagando nelle nostre scuole un modello duale di scolarità: si entra tutti dallo stesso portone, ma dove e con chi si fa scuola dipende dai certificati e dalle diagnosi, dalle aule h, dalle teorie dei tanti “tecnici” con soluzioni spicce se un bambino mena i compagni o si fa la cacca addosso.

Lei non vede soluzioni?

Qualche soluzione forse c’è ma bisogna ripensare completamente il modello di insegnamento, le scuole devono trasformarsi da luoghi di trasmissione del sapere a luoghi in cui si coopera e si costruisce insieme il senso del “vivere insieme”.

Nel concreto cosa vuol dire?

Insieme con altri amici ed esperti abbiamo messo a punto un disegno di legge che parla di cattedra inclusiva.
La questione è complessa e va ripresa in modo più puntuale.
E’ meglio riparlarne in una prossima occasione.