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Il 9 ottobre dell’89 si spegneva l’enigmista Bartezzaghi ma i suoi giochi restano carismatici

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Per designare l’enigma i Greci usavano almeno due parole del loro vocabolario. Esso era o “Ainigma”, in riferimento ad una forma arcana e segreta di trasmissione del sapere o “Grifos” come “rete di giunchi” nella quale era preferibile non rimanere impigliati! Non è un caso dunque se nella tradizione classica Omero sarebbe morto per la vergogna di non aver risolto un indovinello, mentre per Edipo fu vitale risolvere l’indovinello della Sfinge, divoratrice di uomini, che aveva imparato proprio nel giardino delle Muse quel celebre enigma che vedeva l’uomo come creatura che, al mattino, ha quattro zampe, a mezzogiorno, è bipede ed a sera è tripode!

Gli stessi poemi omerici furono rielaborati da Nestore e Trifiodoro, con la tecnica del lipogramma, tralasciando nel testo la lettera, maiuscola o minuscola che indicava il rispettivo libro.

Che dire poi di Cicerone che chiuse una sua lettera con un “Mitto tibi navem prora puppique carentem” che celava un “ave” di saluto al destinatario della sua missiva! Quella dell’enigmistica è, dunque, un antica tradizione, nota persino ad Aristotele che fissò nella “Poetica” alcune regole per comporre enigmi, cui vengono poi associati, anche sogni da interpretare, da Artemidoro a Freud!

Se la letteratura anglosassone muove dai 95 indovinelli dell’“Exeter Book”, l’“Indovinello veronese” del contadino-scrittore resta annoverato tra i primi documenti del nostro volgare, apripista di una tradizione letteraria che vide, nel tempo, la tenzone di sonetti enigmistici tra Burchiello e Alberti, le “Profezie” di Leonardo da Vinci, autore di rebus con 8 fogli a specchi, senza dimenticare quel rebus su drappo dedicato a Pio IX per l’amnistia del 1846.

Il nostro De Sanctis, sulla scorta del Castiglione, guardò con diffidenza ad enigmi, acrostici e giochi verbali, fini a se stessi, nonostante l’enigma sia poi rimasto centrale anche nelle “detective stories “dell’800 di Poe, Collins, Conan Doyle, senza dimenticare che ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco un crittogramma protegge l’accesso alla sala segreta della biblioteca. Eco del resto non era estraneo a quella cerchia dei “Wutky”, cognome di un pittore austriaco dietro il quale diversi enigmisti nascosero la loro identità.

L’olandese Huizinga, autore di celebri studi sull’“homo ludens” ebbe addirittura a dire “Chi non sa risolvere l’enigma perisce, chi lo spiega vive!” Le parole scritte finiscono, così, per diventare anche gioco per l’occhio, dando vita ai celebri Calligrammi di Apollinaire. Finiscono così con l’incrociarsi arte ed estetica, archeologia e letteratura, come nel caso del Quadrato del Sator, da studiosi come Rino Camilleri, definito “magico”, cui sono ascrivibili diversi significati e rinvenuto in aree geografiche molto distanti tra loro, ritrovato nella Pompei precristiana, come in abbazie e castelli.

Ad inventare il primo cruciverba, pubblicato su un numero natalizio del quotidiano “World” ci pensa Artur Wynne, giornalista di Liverpool nel 1913, cui seguono schemi italiani, prima sulla “Domenica del corriere“ del 1925 e poi sulla “Settimana Enigmistica”, celebre rivista nata nel 1932, la cui storia, partita con l’ingegner Sisini non si è mai interrotta, soprattutto grazie all’impegno di Pietro Bartezzaghi, celeberrimo enigmista autore del “Bartezzaghi” schema di parole crociate intestate addirittura al suo cognome.

A casa Bartezzaghi vi erano vocabolari sempre aperti come conferma il figlio Alessandro Bartezzaghi attuale condirettore della rivista, che contattato anni fa dai miei alunni del Convitto Nazionale “Pietro Colletta” di Avellino ricordò loro, in una bella lettera, che “vedere le parole come sequenze di lettere aiuta in una ginnastica che ci insegna a padroneggiare la nostra lingua”.

Bartezzaghi usa ancora una metafora del linguaggio sportivo quando scrive: “E’ come quando si impara a sciare: nei primi momenti basta far scorrere gli sci e già si è felici, poi pian piano si impara a curvare, sempre più vicini ai paletti, felici di padroneggiare il ‘mezzo’”. Le parole del noto enigmista mi sono sempre state care come il ricordo della mia nonna materna che fino ad 89 anni risolveva i giochi di quella settimana enigmistica di cui quando posso, trasferisco sempre con piacere la memoria ai ragazzi perché in un periodo così difficile per il lavoro, per capire cosa fare “da grandi” sapersi spiegare bene e con chiarezza, utilizzando le parole adatte, saper “piegare” le parole in modo che esprimano intelligenza e personalità è un traguardo di grande valore cui i giovani possono e debbono mirare!

Pellegrino Caruso

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