Home I lettori ci scrivono Il frutto del desiderio. Cedimento o rifiuto …

Il frutto del desiderio. Cedimento o rifiuto …

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Quante volte ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae a livello emotivo ed istintuale ma ci crea problemi di ordine morale e valoriale.

In quei momenti, la nostra mente entra in conflitto.

Essa percepisce che accettando di cogliere il frutto desiderato, potremmo trovarci di fronte ad una protesta della dimensione coscienziale e, nel caso di persone esigenti dal punto di vista normativo, provocare una serie di turbamenti e rimorsi.

D’altro canto, la mente è consapevole che, rifiutando il “frutto proibito”, dovrà controllare le proteste, altrettanto forti, della dimensione pulsionale che reclama di vivere, di fare esperienza, di godere, pervenendo talvolta ad un rigetto delle norme che hanno dato senso alla vita precedente.

Qual è, allora, la via di fuga da questa logorante antinomia basata sul binomio cedimento-rinuncia?

Quando l’attrazione è debole bastano le tecniche della “noncuranza” (“Per me non è importante!”) e del “controinvestimento” (“Mi sforzo di occuparmi d’altro”).

Ma, se la pulsione aumenta, allora bisogna ricorrere alla famosa miscela di Victor Frankl: anziché contrastarla, occorre portarla mentalmente al massimo, fino a renderla paradossale e comica (“intenzione paradossa”) e riderci sopra di cuore (“dereflessione”).

Il principio usato da Frankl è quello della saggezza orientale: mai fare muro contro muro con i nostri desideri, mai marciare nella direzione opposta. Infatti, ogni volta che si rinuncia a qualcosa, si dà all’oggetto della rinuncia un potere pari a quello impiegato per combatterla. L’unico modo per uscirne è cercare di capire il vero valore di quella cosa. Essa, allora, quasi sempre ci cadrà dalle mani senza bisogno di rinunciarvi. Questo è il metodo psicologico della “razionalizzazione”.

Sorge spontanea una domanda. Che spazio rimane, fra queste tecniche, per gli esercizi secolari dell’ascesi cristiana basati sulla lotta e sulla rinuncia? A ben riflettere, però, il comportamento dei santi, più che ad una rinuncia, corrisponde ad altro. Il santo coglie il limite ontologico dell’oggetto desiderabile, ne comprende l’insoddisfacente finitezza e, nello stesso tempo, teme di perdere il Creatore per la creatura, la luce per il riflesso (anche questa è una forma di “razionalizzazione”). Inoltre il santo, più che soffrire per la rinuncia dell’oggetto, ne gode, perché ne fa un’offerta oblativa, un atto d’amore finalizzato alla gloria di Dio ed al bene dei fratelli.

Ma posto che non parliamo – normalmente – a dei santi e che pochi sono capaci di tensione trascendente e di amore oblativo, fermiamoci saggiamente alla “razionalizzazione” dei filosofi e degli psicologi: Chiediamoci, come afferma Epicuro, se c’è una proporzione fra l’emozione ed il piacere a cui stiamo per cedere e le spiacevoli conseguenze successive.