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Immissioni in ruolo, ennesimo flop; coperte 4 cattedre su 10. Le regole cambiano ogni anno, ci vuole una riforma condivisa da tutti

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A conti fatti le complesse procedure per le immissioni in ruolo non hanno prodotto il risultato atteso: secondo i dati riportati da Flc-Cgil, ripresi da quelli ufficiali del Ministero, su 94.130 cattedre disponibili per i contratti a tempo indeterminato ne sono state coperte 41.359.
In questo numero sono compresi però anche i docenti che hanno avuto per il momento l’incarico fino al 31 agosto 2023 che solo dopo il superamento dell’anno di prova potranno essere formalmente conteggiati come insegnanti in ruolo (peraltro va anche detto che le mancate conferme saranno certamente molto poche).
Il dato complessivo è allarmante e fa dire alla Flc che “occorre una riforma del sistema di reclutamento che metta al centro la formazione in ingresso, con corsi abilitanti gestiti in collaborazione da scuola e università collegati a meccanismi di accesso al ruolo, in modo da evitare che si creino nuove sacche di precariato”.

Va poi detto che il dato sulle immissioni in ruolo è molto variegato e non uniforme a livello nazionale.
Come al solito emergono differenze importanti fra le regioni del nord e quelle del sud.

Elaborando i numeri forniti da Flc-Cgil abbiamo calcolato le percentuali delle cattedre coperte, regione per regione

REGIONEAssunzioniPosti disponibili%
Abruzzo9981.25479,6
Basilicata17162627,3
Calabria1.1442.12054,0
Campania3.0764.92662,4
Emilia Romagna3.1467.71740,8
Friuli Venezia Giulia1.4802.24865,8
Lazio5.7719.54960,4
Liguria1.2923.07842,0
Lombardia6.31422.17728,5
Marche1.0272.00951,1
Molise19429865,1
Piemonte2.9639.30031,9
Puglia4.1335.01582,4
Sardegna9932.70636,7
Sicilia2.0783.65456,9
Toscana2.8686.39744,8
Umbria7971.13670,2
Veneto2.9149.92029,4
Totale41.35994.13043,9


Come si può osservare si rilevano percentuali di copertura dei posti mediamente più alte al sud (spicca il dato della Puglia con più dell’82%).
In Sicilia si sfiora il 57%, mentre in Campania e in Calabria ci si attesta rispettivamente sul 56% e 54%.
Benino anche Lazio con il 60%, ma poi man mano che si risale la penisola il dato crolla: poco meno del 45% in Toscana, 40,8% in Emilia-Romagna, per scendere al 32% in Piemonte, al 29% in Veneto e addirittura ad uno sconfortante 28% in Lombardia, con il dato del tutto anomalo del Friuli Venezia-Giulia (66%).

Il problema è legato in larga misura alla cronica e storica carenza di insegnanti specializzati che determina l’impossibilità di coprire adeguatamente i posti di sostegno.
Per alcune classi di concorso più “tecniche” (informatica, per esempio) si sconta anche il fatto che i laureati in tali discipline sono poco attratti da stipendi da 1400 euro mensili e preferiscono cercare lavoro nel privato.

Più in generale c’è il problema della mancanza di una organica politica di reclutamento.
Ci aveva provato il Governo Renzi, istituendo il cosiddetto FIT (percorsi di Formazione Iniziale e Tirocinio) recepito dal decreto legislativo 59 del 2017.
Poi nel 2018, con l’arrivo del Governo giallo-verde, il Ministro Bussetti iniziò a smantellarlo, facendo inserire numerose abrogazioni all’interno della legge di bilancio adottata a fine 2018. Abrogazioni che, però, non vennero sostituite da proposte diverse.
Tanto che, negli ultimi mesi del 2019, il Ministro Fioramonti dovette introdurre nuove norme (parliamo della legge 159 del 2020) modificando ancora le procedure previste dal decreto 59.
Ulteriori modifiche vennero introdotte dal decreto legge 73 del 2021 e – in ultimo – dal decreto 36 del 2022.
In pratica dal 2017 ogni Governo ha voluto lasciare un segno modificando o abrogando ciò che aveva trovato.

Per evitare tutto ciò bisognerebbe forse pensare ad una riforma del reclutamento condivisa dalle diverse forze politiche, e quindi sia dalla maggioranza di Governo che dalla opposizione, in modo da evitare che le regole cambino ogni anno. Ma, per ottenere questo risultato, ci vorrebbe una maturità politica complessiva che – per il momento – non si intravvede ancora.