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In difesa dell’analisi logica

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Tentare una difesa dell’analisi logica? Si può, nonostante si dica che agli studenti non piaccia. Non piace quando non la sanno fare, e non la sanno fare perché nessuno gliel’ha insegnata. In circostanze favorevoli, si possono trovare ragazzi (e docenti) addirittura appassionati.

Sul Sole 24 Ore una appassionata difesa dell’analisi logica che proponiamo ai nostri lettori.

Si può stare ore a fare analisi logica. Vuol semplicemente dire chiedersi il perché delle parole. Che cosa lega un aggettivo a un nome, quanti significati ha una banale preposizione come per, da, con. Che cosa distingue una causa da un fine, e come interviene il tempo, futuro o passato.

È ovvio che l’analisi logica non serve a parlare o a scrivere. Impariamo tutti in modo naturale l’uso di una lingua. L’analisi logica è un di più. In questo senso un lusso. È prendersi il piacere, il gusto, di stare a riflettere sulla lingua che parliamo. Un lusso, appunto.

 

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Qui il parere da contrastare è: l’analisi logica, come tutta la grammatica, è un’astrazione che ci siamo inventati dopo. Certo! E meno male che ce la siamo inventata. È come per le piante, gli insetti, le meduse, i funghi: abbiamo catalogato, schedato e dato un nome a ogni singolo “oggetto” che ci è sembrato uguale ad altri. Abbiamo analizzato le caratteristiche e diviso, suddiviso, definito.

Ma pensiamo a Linneo, il grande medico, botanico e naturalista svedese del settecento che per primo ha classificato gli organismi viventi. Ha distinto, ha dato i nomi, ha unito secondo caratteristiche comuni. In una parola, ha analizzato la realtà e l’ha organizzata in schemi. Ha osservato, e poi ha pensato per astrazioni. L’analisi logica è ancor di più. Non è solo l’esercizio di mettere in ordine e incasellare in una tassonomia, è anche vedere la struttura profonda di ciò che diciamo, capire l’organizzazione logica.

Tutto ciò è conoscenza.

Siamo arrivati a conoscerlo, cioè a riconoscerlo secondo una classificazione data. Ri-conoscere è sapere.

Non è forse non «viver come bruti», questo modo di vivere “ri-conoscendo”?

Nomina si nescis, perit et cognitio rerum. È una frase di Linneo che ho trovato su Wikipedia. Se non conosci i nomi, muore anche la conoscenza delle cose.

Quindi, vogliamo continuare a insegnare l’analisi logica (e a fare latino e greco)?

Ma sorge un pensiero più generale. Anzi, una domanda: facciamo bene a raccontare tante storie ai bambini, e in particolare a legger loro dei libri?

Ma questo attuale legger libri ai figli fa loro bene o no? O  non sarà che fa loro del male questo nostro gran leggergli libri? Non sarà che poi inibisce, o addirittura spegne, la loro personale e autonoma lettura, invece che stimolarla?

Forse noi, che spasmodicamente vogliamo che i nostri figli leggano, dovremmo andarci piano col leggere loro libri. Dovremmo aspettare che imparino a leggere e se li leggano da soli, e intanto dosare con parsimonia. Non abituarli a un’abbuffata passiva, ma offrire giusto qualche assaggio, per educarli a un’attesa. Far loro provare il gusto di quando saranno capaci di leggersi i libri per conto loro, e si riempiranno delle storie che vorranno.

Mettere avanti il libro come una conquista dell’età futura, ecco.

Condividere, vuol dire che io ti mando un video di quel che sto vedendo, così lo vedi anche tu. Cioè con-dividi con me, in tempo reale, la visione.

Scrivere, però, era già una forma di condivisione: io scrivevo quel che stavo vedendo perché tu mi leggessi. Il lettore come massimo condivisore. La differenza è che si potevano condividere, attraverso quella forma arcaica, non solo ciò che si vedeva, ma anche ciò che si provava, ricordava, pensava. O anche ciò che si era visto, aggiungendo così un tempo passato al tempo presente. C’era anche l’astratto, e il temporale, nella condivisione della scrittura.

La parola evoca, e crea i luoghi. Non ha bisogno che esistano. Oggi preferiamo avere occhi che parole.

Ieri era descrivere senza vedere. Oggi è vedere senza descrivere.

In mezzo passano i secoli, i millenni.