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La meritocrazia fine a se stessa è un abbaglio, è pura retorica

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Si sta facendo troppa retorica intorno al merito, dopo la decisione di aggiungere questa parola alla titolazione del ministero dell’istruzione.

Se ne sta facendo troppa, con tutti che si sentono legittimati a dire la propria opinione, a volte senza sapere che da un lato il merito è già parte sostanziale della scuola e della università, e che, dall’altro, nell’odierna società aperta non si deve mai dare per scontato che le valutazioni scolastiche ed universitarie siano degli assoluti, perchè vanno, come per tutte le esperienze, commisurate alle altre variabili della vita, perché poi possano tradursi in effettiva capacità, in matura professionalità, in concreta competenza.

Non sempre è scontato, lo sappiamo tutti, il filo conduttore tra percorsi di studio ed esperienze e scelte di vita.

E’ ovvio che, quando cerchiamo ad esempio un medico, vorremmo preparazione, conoscenza specialistica e capacità relazionale. Ma sappiamo anche che trovare un bravo medico non è scontato, nel senso di un medico bravo.

Ci vuole prudenza, quindi, con le parole chiave.

Per questa ragione, la misurazione di una valutazione, a scuola, non è un semplice calcolo aritmetico delle varie conoscenze. E’ sempre di più. Tant’è che i voti delle, varie materie vanno poi consegnati dai docenti, in sede di scrutinio, alla valutazione complessiva del consiglio di classe, la quale deve dire la qualità di un percorso, ma in relazione al percorso successivo. E le medie aritmetiche delle varie prove non sempre aiutano, ma vanno, appunto, interpretate.

Quando parlo non solo con i genitori suggerisco sempre di meditare bene, perciò, la parabola evangelica dei talenti, il più grande testo di pedagogia che ricordi.

Per questa ragione mi sento di dire che la meritocrazia fine a se stessa è un abbaglio, è pura retorica.

Perché si basa su presupposti non chiari.

Non parlo di non riconoscere il giusto premio, in una valutazione, ad uno studente.

Parlo del fatto che quel premio, ammesso che si possa parlare di un premio come valore assoluto, è figlio di tante variabili.

Quando frequentavo l’università mi sono trovato ed ho fatto amicizia con colleghi studenti che hanno avuto, dalle loro famiglie, la fortuna di non doversi mantenere agli studi e di passare molto tempo in soggiorni all’estero per imparare le lingue, con valori aggiunti che non mi potevo permettere.

Quel premio, dunque, è un frutto dalle tante facce. Allora compresi che non sempre, a parte le eccezioni, “uno si fa da solo”.

Don Milani, tanto per capirci, spronava, e a volte sferzava, i figli della povera gente di Barbiana a studiare. Ma sapeva benissimo che quei figli dovevano lottare dieci volte per mettersi alla pari dei ragazzi delle famiglie abbienti. E lo strumento che diceva chiaramente la differenza era la lingua.

Dunque, dobbiamo sempre chiederci quale possa essere il compito della scuola, se vogliamo dare realmente a tutti le stesse opportunità.

Qual è il difetto odierno del concetto di merito? Legare in forma più o meno nascosta lo stesso merito al concetto di successo. Non solo: se il merito viene ridotto al successo individuale, anche il demerito si trova ridotto all’insuccesso personale, con i relativi sensi di colpa di fronte ad un brutto voto, ad una scelta sbagliata, ad una bocciatura, ad un periodo di crisi.

Il successo, se così vogliamo chiamarlo, ha tanti padri, e poi non è oro tutto ciò che luccica.

Senza ricordare che i nostri ragazzi giocano, con l’adolescenza e la giovinezza, la loro libertà come responsabilità, senza però essere consapevoli dei contesti che stanno vivendo, al di là dell’impegno personale.

Quante volte ho invitato i nostri giovani a dire un semplice grazie ai loro genitori, o amici, o compagni, o docenti, o educatori, per il bene loro donato!

Sana umiltà, dunque.

Non siamo quindi gli unici artefici del nostro destino.

Ovvio, ognuno si deve impegnare sul serio, ma secondo consapevolezza, perché si impara sempre da tutti.

La retorica del merito, dunque, rischia di bruciare questi “grazie”, con i relativi legami sociali, quelle forme cioè di solidarietà silenziosa che sono, invece, il cuore non sempre detto della vita della scuola e dell’università.

La nostra società, per chiudere, non è formata da vincitori e perdenti, ma da persone in cammino, che a volte riescono e a volte vivono fragilità.

Per questa ragione, mi capita spesso di dire che il vero merito è la valorizzazione non dei migliori, ma della parte di noi stessi, di ciascuno di noi, ognuno secondo le proprie possibilità, talento, percorsi di vita. Senza mai presunzione.

Questo il vero senso del fare scuola oggi.