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Lavoro minorile: un fenomeno poco noto in Italia

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Il lavoro minorile, di cui lo scorso 12 giugno si è celebrata la Giornata Mondiale, rappresenta un problema serio e in molti casi drammatico a livello global, infatti, secondo Save the Children oltre 10 milioni di minori rischiano di non poter tornare a scuola, aggiungendosi così ai 258 milioni che già non avevano accesso all’istruzione prima della diffusione del virus. 
Durante la pandemia i giorni di scuola persi ha aumentato gravemente l’esposizione di bambine, bambini e adolescenti al rischio di sfruttamento del lavoro minorile, oltre a matrimoni precoci e gravidanze: si stima infatti che sono 2,5 milioni di ragazze in più a rischio di matrimoni precoci nell’arco di cinque anni e un aumento fino a un milione delle gravidanze adolescenziali nel 2020.

Ricordiamo che la ricorrenza quest’anno ha assunto un significato ancora più importante, il 2021, infatti, è stato dichiarato l’Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, in base alla risoluzione che proclama il 2021 come Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, adottata all’unanimità dell’Assemblea Generale dell’Onu nel 2019 per raggiungere l’Obiettivo 8.7 previsto dall’Agenda 2030.

Investire sull’educazione

Il lavoro minorile in Italia
La Fondazione studi Consulenti del lavoro ha di recente realizzato l’indagine Il lavoro minorile in Italia: caratteristiche e impatto sui percorsi formativi e occupazionali, esplorando un fenomeno poco conosciuto e complesso. Lo scenario che emerge a livello nazionale descrive un paese dove il rischio dell’aumento del lavoro minorile nel post pandemia è alto. Tra gli attuali occupati in Italia, con età compresa tra 16 e 64 anni, circa 2,4 milioni hanno svolto un’attività lavorativa prima del sedicesimo compleanno. A questo dato si accompagna quello secondo il quale nel 2020 erano oltre 230mila gli under 35 a dichiarare di aver ricevuto una retribuzione già prima dei 16 anni e tra loro ancora oggi più della metà svolge professioni a medio-bassa qualificazione. Tra chi invece ha fatto il suo ingresso nel mondo del lavoro in un’età legale il dato si ferma al 31%.

Italia maglia nera in Europa nell’abbandono prematuro degli studi
Secondo la ricerca della Fondazione, l’Italia è al primo posto in Europaper la quota di giovani dai 18 ai 24 anni che hanno lasciato prematuramente gli studi (9,9%), seguita dalla Spagna, soprattutto nel Sud del Paese, con punte in Sicilia e Campania rispettivamente del 19,4% e 17,3%.

Ricadute negative

Le ricadute negative in ambito lavorativo sono evidenti sulle prospettive di vita dei giovani coinvolti: chi inizia a lavorare prima dei 16 anni nel 46,5% dei casi consegue al massimo la licenza media e solo l’11,2% arriva alla laurea. Tra chi entra nel mondo del lavoro in età legale, sono solo 18 su 100 coloro che si fermano alla scuola media inferiore, mentre la percentuale dei laureati sale al 27,3%.

Altro dato negativo che emerge dalla ricerca, è che il lavoro minorile abbatte le possibilità di raggiungere i vertici della piramide professionale, infatti solo il 17% arriva a svolgere una professione imprenditoriale, intellettuale o tecnica mentre è quasi doppio il valore (31,5%) tra quanti, al contrario, iniziano a lavorare più tardi. Il fattore genere è un alto dato significativo: 7 uomini su 10 sono più propensi ad abbandonare gli studi e maggiormente coinvolti nelle esigenze di sostentamento delle famiglie in condizioni economiche disagiate rispetto alle donne – e vivono nelle regioni del Nord (57,1%) specie in quelle con un’alta vocazione turistica (Trentino-Alto Adige, 17,9%; Val d’Aosta, 10,6%; Sardegna, 10,3%).

Il lavoro minorile nel periodo 2018 – 2021

Tra il 2018 e 2019 in Italia sono stati accertati dall’Ispettorato del lavoro più di 500 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri, di cui la maggioranza nei servizi della ristorazione, nel commercio all’ingrosso o al dettaglio, e a in attività manifatturiere e agricoltura.

Secondo i ricercatori questi numeri rappresentano la punta dell’iceberg di un fenomeno, che non è indagato con regolarità. Si va, secondo l’indagine, dal vero e proprio sfruttamento a collaborazioni retribuite nell’ambito di attività famigliari, a piccoli ed estemporanei lavori stagionali, frutto della volontà di sperimentare precocemente un’esperienza lavorativa, alla necessità di lavorare imposta dalle condizioni economiche familiari.
I dati confermano, ancora una volta, dice Rosario De Luca, presidente della Fondazione, che l’investimento in formazione e competenze è vincente in una prospettiva che guarda alle opportunità future, dei singoli e del Sistema Paese.