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Lettera a Diana, universitaria suicida a Napoli

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Cara Diana,

non ha senso, forse, che ti scriva oggi…

Adesso è tardi… lo so!

Avrei voluto incontrare i tuoi occhi… prima.

Ascoltare il tuo silenzio più forte di ogni gesto.

Ma oggi non mi resta che osservare quel lenzuolo bianco calato dalle finestre della “tua”, della “nostra” Facoltà di lettere di Napoli.

Un segno che si fa urlo dei tuoi compagni e compagne di cammino con la scritta agghiacciante: “la vostra università uccide”.

Una pugnalata…

Una lama che fende e fa sanguinare il cuore di tutti ma, particolarmente, quello dei docenti… il mio!

Come può l’università, casa della formazione e della ricerca, della definizione più alta di cultura, conoscenza e consapevolezza essere percepita come condanna letale?

Come può trasformarsi in prigione fatale per chi ci entra proprio quel luogo della libertà?

Immagino i tuoi sogni la mattina dell’iscrizione.

Quegli orizzonti d’attesa che ho avuto nel cuore anche io e che mi hanno spinto ad intraprendere il cammino.

Un sommerso di speranze cancellate in un attimo inenarrabile.

Perché?

È la domanda che agita lo spirito inquieto…

Non è giusto!

La sola affermazione che ruba la pace…

Il tuo “caso” fattosi cronaca racconta la storia di tanti fallimenti vissuti col sapore dell’irrimediabile.

Con gli occhi della disperazione e le mani vuote di chi non conosce ancora il potenziale che si porta dentro… in germe… come seme.

La tua drammatica scelta ci parla della fragilità di una generazione vittima della corsa sfrenata al “tutto e subito”.

L’immediatamente consumato che non ammette soste, arrese, cadute e sconfitte. L’ansia del “primo posto”, dell’essere apice di un sistema che vuole la perfezione e cancella il resto.

Non basta più “essere” ma è necessario che si diventi “il migliore” per trovare uno spazio qualsiasi in questo tempo di trans-umanesimo, di ultra-umanesimo.

Cara Diana, ti chiedo perdono per questa società che non ha saputo capire il tuo valore e valorizzare il tuo talento unico, silenzioso, nascosto: la tua umanità.

Ti chiedo perdono per questa scuola incapace di educare… nel senso più genuino ed etimologico: tirare fuori la bellezza che già esiste, dentro… ciascuno.

Ma quale bellezza?

Non quella del podio, del primo posto, del tutto perfetto ed ordinato.

Non quella del “massimo”, del “merito” che mette in competizione ma quella più intima e nascosta che ha il linguaggio della fragilità.

Ti chiedo perdono perché questa “mio” mondo adulto non ha saputo dirti, con i fatti più che con le parole, che sei stata bellezza unica e irripetibile con tutto il bagaglio delle imperfezioni che ti hanno fatto lacrimare.

Che non serve un trenta, un esame, una laurea a tutti i costi per sentirsi validi ma il respiro della propria umanità desta già tutto l’interesse e l’attenzione che serve a vivere… verso la felicità.

Perdona le orecchie sorde che ti hanno confuso… gli occhi ciechi che ti hanno attraversato… le mani sterili che ti hanno raggiunto col loro gelido contatto.

Sarebbe bastato un solo abbraccio più che un appello d’esame per dare vigore ai tuoi giorni e dire che la sconfitta di un momento è la strada necessaria della maturità.

Perdona chi ti ha preteso “forte” rendendoti “debole”.

Da quel lenzuolo bianco calato alla finestra, oggi vorrei scappare, evadere come un prigioniero con la sua fune… perché non sia più complice di un sistema che uccide.

L’università, la scuola tutta, in cui ho speso e spendo gran parte della vita, ti chieda insieme a me perdono e risignifichi i cammini.

Sia ancora luogo della formazione umana in cui la vita fiorisce, libera e bella, fragile e pura…semplicemente umana… senza paure, freni e lotte.

Con tutto il fascino delle imperfezioni… dei dubbi… del limite.

Voglio una scuola che sa stare con tutti, accanto a tutti e che dia valore alla vita, sempre.

Che la vita torni ad essere a portata d’uomo adatta a ciascuno.

Lieve sorriso di fragile bellezza…

Mario Ascione

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