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Lo Steri di Palermo e i “murales” degli eretici del Santo Uffizio: libro di Giovanna Fiume

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Allo Steri di Palermo, il famigerato carcere descritto pure dalla letteratura e che veniva riempito dai detenuti del Santo Uffizio, in attea o a conclusione di processi, tra il 1601 e il 1782, anche l’arte, o comunque un suo modello espressivo, aveva il suo spazio. La stessa che, per certi versi, si apriva negli altrettanto orribili “Piombi” di Venezia, dove i prigionieri graffiavano le pareti incidendo nomi e figure, preghiere e imprecazioni, nomi. Una sorta di caverna di Lascaux dei secoli bui della inquisizione spagnola in Sicilia, dentro la quale i cosiddetti colpevoli sfogavano le loro passioni, i dissensi ma anche la fede religiosa o l’urgenza di lasciare coi nomi l’ultimo brandello del loro passaggio.

Se Giuseppe Pitrè o Leonardo Sciascia se ne interessarono, negli ultimi anni notevoli sono stati gli studi storici per risalire sia ai personaggi, che eseguivano questa sorta di “murales”, e sia al messaggio sotteso. Per lo più eretici, ebrei e musulmani, rinnegati e luterani, secondo le accuse loro mosse, ma anche bestemmiatori, bigami, negromanti, sodomiti, preti sollecitatori e concubini, non mancavano nemmeno gli oppositori politici, mentre i documenti che li riguardano si trovano per lo più in Spagna dal momento che nel 1783, a un anno dalla soppressione del tribunale, il suo archivio fu bruciato. In ogni caso, incrociando i nomi incisi e documenti dei processi è stato spesso possibile tratteggiare profili biografici di alcuni di questi imprigionati, le loro storie giudiziarie, consentendo pure di capire il maccanismo legale della inquisizione, le procedure, le condizioni carcerarie.

Ma anche il livello barbarico delle torture subite, le aspettative, laddove si contano pure componimenti poetici, citazioni di testi sacri, date, preghiere, salmi, immagini di imbarcazioni e battaglie navali, comprese scritte in siciliano, latino, italiano, inglese, ebraico, notazioni sulla vita in carcere.  Documenti insomma della cultura del Seicento, e non soltanto siciliana, e testimonianza di una Palermo crocevia del Mediterraneo, nonché attestati per indagare meglio e meglio scoprire i fortilizi segreti dentro cui l’inquisizione operava, con le sue manovre e i suoi conflitti di giurisdizione, coi reati perseguiti e le sue ingiurie, e su cui rende conto il robusto e documentatissimo saggio di Giovanna Fiume, già storica presso l’università di Palermo, “Del Santo Uffizio in Sicilia e delle sue carceri”, Viella, 34,00 Euro. Che si presenta pure come un vero e proprio luogo storico di base per esplorare l’Inquisizione di rito spagnolo, ma alle dipendenze non del papa o dell’autorità ecclesiastica, bensì della monarchia spagnola che provvedeva pure alla scelta degli inquisitori.

Una anomalia denunciata dai viceré, ma che non impedì al tribunale di tirare dritto nella sua opera, chiedendo di denunciare chiunque fosse sospetto di quei reati contro cui la Chiesa era inamovibile nella accusa e nella relativa condanna. Segreto l’iter processuale, erano nascoste pure le accuse e i testimoni, compresi i denuncianti, mentre la tortura, famigerata quella della corda, era lo strumento per raggiungere la verità che si voleva sentire. Da qui le pene, secondo un principio proporzionale al reato che poteva portare pure al rogo.

E allora gli “auto da fè” per riconciliare il penitente con la fede, avendo ormai ritrattato i propri errori dottrinari, come furono costretti a fare molti ebrei convertiti per non patire i roghi che nel 1513 ne eliminarono oltre trenta, mentre 1.965 furono i processati insieme a 846 rinnegati, coloro cioè che avevano tradito la fede per l’islam, ai protestanti e agli eretici in senso stretto, a cui si aggiungono 976 processati per blasfemia o stregoneria, donne per lo più con ruolo, come Le Goff ha sottolineato, di medichesse piuttosto che di praticanti la magia nera.

La chiesa, custode della vera fede, si arroga il monopolio della salvezza, ma alla quale, il 16 marzo 1782, venne tolta questa prerogativa, con l’abolizione del tribunale del Sant’Uffizio, eseguita dal viceré Caracciolo che ne lodò la decisione. Pregevoli, nel libro, le tavole più significative disegnate dai prigionieri e pure la spiegazione ragionata e ampia dei reati, con le provenienze dei condannati, mentre avvince il racconto stesso di tutta l’evoluzione siciliana della Inquisizione, dentro cui non mancano i conseguenti nessi con la più vasta e generale storia del mediterraneo, crogiolo di civiltà e luogo di incontro e di sintesi della storia d’Europa.