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Per i Partigiani della Scuola Pubblica il bonus, erogato in questi giorni, è un fallimento

Il Bonus è una novità introdotta dalla L.107 che intende conferire potere salariale al d.s. ma che nella realtà dei fatti, in assenza di soluzioni lungamente discusse, validamente approfondite e collegialmente condivise, si rivela un campo minato e il D.S., comunque si muova, rischia di sbagliare.

Un tema che avrebbe meritato una riflessione seria, specialistica e a livello nazionale e si è invece ridotto all’individuazione di soluzioni approssimative, localistiche fino a livello di singola scuola, improvvisate, cui sono stati chiamati a concorrere, con ruolo paritario, persino soggetti non qualificati o del tutto incompetenti in questioni docimologiche.

Ed ecco il campo minato frutto della superficialità e della leggerezza con cui si è voluto disciplinare la materia.

1) Se i soldi del fondo per il bonus sono dati a pioggia, in parti uguali a tutti i docenti, evidentemente stabilire dettagliati criteri di assegnazione è del tutto inutile, basta limitarsi a quello di non essere incorso in gravi sanzioni disciplinari; inoltre si contraddice l’indicazione del miur (e anche l’intenzione del legislatore, ci chiediamo?) che, perversamente, suggerisce che gli usufruttuari siano orientativamente il 10% dei docenti [E qui ci poniamo delle domande:

a) se fosse davvero questa la % dei docenti meritevoli nelle scuole pubbliche non sarebbe, forse, meglio chiuderle?;

b) se il blocco degli automatismi stipendiali è stato giustificato con l’istituzione di questo fondo per il merito, di natura accessoria (e quindi i cui emolumenti non sono computabili a fini pensionistici), solo il 10% dei docenti potrà aspirare, “sgomitando” fino alla vecchiaia, ad arrotondare temporaneamente uno stipendio di base di per sé modesto?

2) Qualora si decida invece di premiare economicamente solo alcuni insegnanti, si finisce nella stragrande maggioranza dei casi in un riconoscimento economico di funzioni meramente organizzative in quanto più facilmente riconducibili a dati oggettivi; funzioni importanti ma non precipue, non il nucleo, il “core”, della professione docente (funzioni che finiscono spesso, così, per essere doppiamente retribuite poiché già riconosciute economicamente  con il fondo d’istituto).

Le funzioni didattiche sono sempre più neglette e relegate nella retribuzione di base. Anche se è proprio su questo terreno che si gioca il vero valore dell’insegnante, la partita della formazione dell’uomo e del cittadino, il pilastro portante, la stessa ragione d’esistere delle scuole. Con il risultato che molti docenti trascurano questo nobile lavoro di base per dedicarsi più tranquillamente e senza affanno a organizzare quello degli altri. Vale un “bonus” e quello che fai in aula non è veramente visibile e quindi soggetto a penalizzazioni economiche: d’altra parte non è difficile truccare abilmente le carte ingannando gli alunni e compiacendo i loro genitori. Insomma il lavoro di burocrate è quantificabile in n. di ore, è visibile e rende di più. Quello di insegnante no.

Non è quantificabile, perché costante e ubiquitaria opera di autoformazione, vite intere spese a leggere, riflettere, confrontare, prevenire domande, suscitarne altre, cercare risposte e anche organizzare semplicemente il lavoro quotidiano nelle proprie aule.

Non è immediatamente visibile perché è un lavorío di costruzione paziente e lento che evolve con la crescita dei ragazzi e dà frutti a lungo termine.

Rende poco. Forse proprio perchè non quantificabile e poco visibile.

Dei molteplici fattori che concorrono al successo formativo dell’allievo, fattori ambientali, organizzativi dell’istituzione scolastica, familiari, sociali, economici, soggettivi (dell’alunno e del docente) e intersoggettivi, i primi 2 non sono certo quelli che hanno il peso maggiore, come vorrebbero farci credere con questo furore legislativo, innestato sull’autonomia. E chiunque in buona coscienza lo sa.

Come uscirne?

Dando il bonus a tutti i docenti tranne che in casi di eclatante demerito, negligenza, assenteismo ma quantificandolo monetariamente in base a graduatorie di merito (con indicatori analitici) quanto più possibile oggettive, trasparenti e comprovate da riscontri su tutte le dimensioni in cui si dispiega la professione docente?

In tal caso il compito è arduo e delicato. Richiede sensibilità, capacità di cura e valorizzazione delle risorse umane, formazione specifica, capacità di dialogo, ascolto, condivisione.

Tempo.

Attualmente, con qualche eccezione probabilmente, fantascienza.

Perché allora, in luogo della repentina attuazione di questa follia normativa, non aprire un sereno dibattito preparatorio in attesa di tempi più maturi? Ammesso che premiare il merito nella scuola sia un mero dispensare denaro. Ammesso che questo riconoscimento economico debba derivare da una spartizione di risorse dal basso e non da riscontri ottenuti autonomamente dal miur. Ammesso che la competizione economica fra colleghi faccia bene alla scuola.

E noi non lo crediamo affatto.

Redazione

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