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Perché nessuno parla più del burnout?

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Non se ne parla più. O almeno, sembra, non più come una volta. Ma certamente non è svanito.

Ci stiamo riferendo al ‘burnout’ (ancora parole ‘straniere’!). Una sindrome che nasce dallo stress cronico legato al lavoro. Non un disturbo mentale o una condizione medica. Una situazione di logoramento, però, che può avere ricadute negative sul lavoro (ovviamente), sulla vita privata e sulla salute.

Chiamiamola depressione o esaurimento. Un sentirsi inadeguati, affaticati, sfiniti, quasi incapaci di controllare la nostra vita.

Un tempo questo stato psicofisico di decadimento era ben visibile nei docenti e i mezzi di formazione (legati in gran parte alla editoria specialistica) lo sottolineavano esplicitamente e non mancavano di registrare come molti insegnanti dovessero far ricorso all’ausilio degli psicologi, per tentare di arginare o superare quella corrosiva condizione di totale difficoltà e generale confusione.

Qualcuno, nel mondo della politica, non aveva paura a definire l’insegnamento un ‘lavoro usurante’ (e come tale sarebbe stato opportuno considerarlo).

Poi, per ignoti motivi, si è preferito non calcare la mano su questo problema, pur senza dimenticarlo, e limitarsi a portarlo, ogni tanto e con toni meno drammatici, all’attenzione della società.

Eppure il pericolo di depressione, esaurimento, demotivazione, svilimento rimane, per tutti i lavori e le professioni e, quindi, anche per i docenti.

Anzi per loro non è un pericolo, bensì una triste realtà. Una realtà ancora più evidente che in passato di fronte a questo continuo e magmatico cambiamento (spesso non positivo) della scuola.

Nove riforme, spesso radicali, negli ultimi trenta anni hanno creato o accresciuto lo smarrimento e il disorientamento in moltissimi docenti che non riconoscono più la ‘loro’ scuola e non riescono, pur con tutta la loro buona volontà, ad adeguarsi alle accelerate, frettolose e, non di rado, approssimate (o pasticciate) metamorfosi scolastiche. Quasi degli ‘strappi’ violenti o un accavallarsi e intrecciarsi, in modo non ordinato, di eccessive e non calibrate trasformazioni.

Si arriva così ad incomprensioni o rapporti difficili con i colleghi, i dirigenti, i genitori e gli alunni e ciò non giova a creare un giusto, armonico ed efficace clima di lavoro di cui avrebbe tanto bisogno la scuola di oggi.

A partire dalla scuola dell’autonomia in avanti gli impegni dei docenti si sono moltiplicati (e non tendono a diminuire, se mai ad aumentare) e allargati a macchia d’olio: oltre alle lezioni, devono preparare miriadi di programmazioni, assolvere a tanta burocrazia fatta soprattutto di moduli da riempire, partecipare a riunioni continue, svolgere attività extra-didattiche di vario genere, progettare in grande, programmare e svolgere lezioni mirate ad alunni con ‘fragilità’ e molto altro.

Soffermiamoci su due punti. La burocrazia (adesso anche ‘virtuale’) e la ‘fragilità’ degli alunni.

Lo Stato italiano fin dalle origini è, per sua natura, altamente burocratico e gli sforzi fatti negli ultimi decenni per snellire questo (chiamiamolo) ‘impedimento’ ad una buona amministrazione non hanno certo dato i risultati sperati e ciò è ben visibile nel mondo della scuola.

Così il docente si trova a dover confrontarsi con una modulistica ampia (che tende sempre più ad implementarsi), spesso strutturata e formulata con il classico linguaggio ‘burocratese’, comprensibile solo ad abili esegeti e professionisti del settore, e si vede costretto ad un lavoro da impiegato o segretario, a detrimento del suo vero lavoro.

Non sono rari i casi, poi, in cui si deve proprio sostituirsi, per alcune procedure, alla segreteria, una segreteria carica di incombenze e impossibilitata ad evadere le migliaia di pratiche a cui deve far fronte per mancanza di personale.

Inoltre in un mondo giovanile segnato da una forte presenza di ‘fragilità’, di ogni tipologia, ognuna con le sue esigenze e richieste (e ogni tipologia ha una serie importante di articolazioni e quindi di necessità), la scelta politica della ‘inclusività’ ad ogni costo, mette in forte tensione e difficoltà il docente, costretto ad imparare, in poco tempo, nuove (e non sempre valide)metodologie didattiche, obbligato ad insegnare in classi molto eterogenee, troppo diversificate e incredibilmente complesse, ‘invitato’ a convivere (non di rado con diversa di vedute) con altre figure educative (‘generici’ educatori, psicologi, docenti di sostegno) e a condividere e portare avanti (a fatica) con loro il suo lavoro, non senza (spesso) opposizioni e resistenze.

Ammettiamolo non è facile, è logorante e diventa ancora più duro quando si arriva alla compilazione dei moduli (questa è proprio burocrazia arcigna!) necessari per preparare percorsi di istruzione personalizzati per gli alunni deboli. Moduli sempre diversi di anno in anno, sempre più esigenti e sempre più particolareggiati e distinti, secondo un’ampia scala di indicatori legati alla gravità del soggetto (alunno) con cui occorre rapportarsi.

A questi due punti potremmo aggiungere, per i docenti più attempati, il dover accettare e subire l’“invasione” dell’intelligenza artificiale o il ‘fastidio’ interiore provocato dalla politica del ‘dimensionamento’ che destabilizza tutto il sistema scolastico.

A questo punto è normale che il fenomeno del ‘burnout’ non rallenti, anzi cresca e si ramifichi nelle menti e negli animi dei docenti come una malattia grave.

Disorientati, smarriti, insicuri, demotivati, depressi, ansiosi (proprio come gli allievi). Insomma (secondo la traduzione, più o meno corretta, del termine straniero) ‘bruciati’. Per molti docenti non resta che andare avanti, cercando di non usurarsi troppo, con l’illusione della pensione oppure chiedere, anche loro, un docente di sostegno.

Sì anch’io, docente ‘usurato’, avrei proprio bisogno di ‘sostegno’.

O no?

Andrea Ceriani

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