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Prove Invalsi: ma davvero “valutano”?

Come sempre, in questi giorni, le prese di posizione sui test Invalsi si moltiplicano e si diffondono rapidamente grazie anche all’aiuto della rete.
A conti fatti, però, le critiche si focalizzano per lo più su 3-4 punti (la lettera di Simonetta Salocone rappresenta un ottimo “riassunto generale”): le prove non tengono conto della programmazione reale delle scuole e dei docenti, costringono gli alunni a lavorare con il “cronometro alla mano”, sono uno strumento inadeguato a misurare il “valore aggiunto” delle scuole, creano ansia fra gli alunni e quindi forniscono dati poco attendibili,
Ci sono poi due questioni più strutturali: una è di carattere sindacale (come si compensa il maggior impegno dei docenti impegnati nella correzione dei test?) e un’altra riguarda le finalità generali della rilevazione (le scuole migliori verranno premiate e le peggiori saranno in qualche modo punite?).
Per protestare contro i test è stato anche proclamato uno sciopero (pare che l’adesione però non sia andata neppure al di là dell’1%) mentre in alcune scuole superiori molti studenti hanno consegnato il foglio in bianco; in alcune scuole primarie le famiglie hanno organizzato attività “alternative” (lezioni all’aperto, visite didattiche o altre cose del genere) per evitare i test.
Iniziative del tutto legittime che però, a me pare, non spostano i termini della questione neppure di un millimetro.
Uno dei problemi maggiori del nostro sistema scolastico è che la cultura della valutazione è quasi alla preistoria.
Se così non fosse non si farebbe confusione fra misurazione e valutazione: i test Invalsi, di per sé, non valutano un bel nulla ma si limitano a misurare una prestazione (oltretutto con margini di errore più o meno ampi, come accade in qualunque operazione di misurazione: anche uno studentello di fisica al primo esame sa benissimo che per ridurre – e non per eliminare – l’errore occorrono n misurazioni ripetute con modalità e in contesti diversi).
Se per ipotesi io (a più di sessant’anni di età) scendessi in pista e corressi i 100 metri in 11 secondi netti sarei valutato come un mezzo fenomeno, ma se il primatista del mondo Bolt non andasse sotto i 10 secondi sarebbe sommerso dai fischi dello stadio.
Fuor di metafora: i punteggi dei test offrono una misura che, messa insieme a molti, moltissimi altri dati possono fornire qualche indicazione sulla scuola, sulla classe e, con mille cautele, anche sul singolo alunno.
Da questo punto di vista sarebbero secondo me molto più comprensibili le proteste contro la prova Invalsi nell’esame di stato al termine del primo ciclo di istruzione che si traduce immediatamente in un punteggio che fa media con le altre votazioni.
Quanto all’impiego dell’esito delle prove per “valutare” gli insegnanti credo che si tratti di una autentica leggenda metropolitana: per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe somministrare prove in tutte le discipline e non solo in italiano e matematica (ma si possono predisporre prove oggettive per l’educazione fisica, per la musica o per l’educazione all’immagine senza tradire alla radice il senso del valore formativo di queste discipline?).
Insomma a me pare che usare le prove Invalsi per valutare il singolo docente non sia affatto semplice ed è davvero improbabile che si possa riuscire a mettere in piedi un meccanismo del genere.
Tutt’altra questione è quella della valutazione complessiva dell’istituzione scolastica.
E su questo punto bisogna essere franchi e onesti.
Se una scuola primaria con 30 classi e 55 insegnanti riesce a garantire un tempo scuola di 40 ore settimanali a tutti gli alunni, promuovendo attività non strettamente curricolari, offrendo aiuto ai bambini con DS, accogliendo 50 alunni stranieri e ottenendo risultati nella media nazionale ha o non ha il diritto di essere valutata migliore rispetto ad una scuola (sempre di 30 classi e 55 insegnanti) che opera in un territorio con analoghe caratteristiche ma dove 20 classi funzionano a tempo pieno mentre per le altre 10 non esiste neppure un rientro pomeridiano, dove non vi sono stranieri, dove per gli alunni in difficoltà non è garantito nessun aiuto e dove i risultati delle prove sono complessivamente sotto la media nazionale?
Se una scuola usa bene i 5 talenti avuti in dote e un’altra scuola non li usa altrettanto bene, è eticamente corretto trattare le due scuole allo stesso modo? Certamente la seconda scuola va aiutata a migliorare, ma forse un piccolo premio anche solo simbolico la prima scuola se lo merita. O no?

Reginaldo Palermo

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