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Quando la paura distrugge il lavoro educativo

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Sono un insegnante dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore di Follonica. In questo periodo di Corona Virus e di didattica a distanza ho ritenuto utile aprire delle pagine condivise con le studentesse e gli studenti delle  classi quarta e quinta nelle quali poter liberamente esprimere  riflessioni di natura psicologica, sociologica o comunque personale su questo particolarissimo periodo che stiamo vivendo. Ho letto  cose molto belle e intense.

Scrive una studentessa di quinta:
“Da sabato avremmo potuto iniziare a sentire il profumo dell’estate che si avvicinava, sarebbe iniziata l’attesa più bella, l’attesa più attesa. Immaginavo questo periodo in un modo totalmente opposto. Pensavo di iniziare Aprile con l’ansia fino al collo per la maturità, tenendo per mano i miei compagni e studiando fino allo sfinimento insieme a loro.
Già mi immaginavo l’andamento delle giornate, anche se in realtà non sarebbe cambiato niente rispetto ai mesi precedenti: scuola, pranzo a casa, caffè, biblioteca, casa. Mi aspettavo solo e soltanto questo: noia e stanchezza. Il tutto sarebbe stato spezzato solo da qualche evento ‘straordinario’ come una cena in casina da Marghe o un pranzo all’orto di Tommy. E invece niente è come me lo aspettavo.”

Posso garantire che questo è il tono dominante della maggior parte degli studenti di quinta. In particolare nelle parole di questa studentessa è assolutamente chiara la differenza fra un’abitudine e un rito: sono così simili, da poter essere confusi, eppure l’abitudine si presenta come ripetizione meccanica e insensata dell’uguale e invece il rito unisce e trasporta verso  un altrove mai chiaramente identificato e che proprio per questo si veste di una qualche sacralità o accompagna verso quei  luoghi del senso che prima di descriverli li devi sentire.
L’ Esame di Stato è un rito laico di passaggio, uno dei pochi rimasti; del rito ha tutte le caratteristiche: la dimensione collettiva, l’intensità dell’attesa, il suo essere formalizzazione del cambiamento e allo stesso tempo contenimento del timore ad esso collegato.
Immagino i ragazzi della quinta a scuola per le ultime tre/quattro settimane per un ripasso finale con ingressi scaglionati di pochi minuti, tutti con mascherina, ciascun gruppo classe diviso su tre aule e gli insegnanti che fanno lezione in una delle tre aule proiettati sulle lavagne multimediali delle altre due. Per le due prove scritte d’esame stessa organizzazione e poi grande orale finale con i docenti alla dovuta distanza, ma presenti con gli sguardi e la voce viva dei corpi, per costruire insieme un momento serio e vero, che corona un percorso di apprendimento e vita  e che segna il passaggio all’età adulta.

Se vogliamo davvero che la scuola sia prevalentemente istituzione educativa e non solo normativa,  se vogliamo rispettare il lavoro quinquennale di studenti e docenti, dobbiamo garantire la presenza a scuola almeno delle classi quinte nella parte finale dell’anno e per l’Esame di Stato.

Rappresenterebbe un segnale positivo anche per le classi inferiori. Lo faranno i nostri amici tedeschi, che anche in questa occasione, riconosciamolo,  hanno dato  prova di straordinaria capacità organizzativa, riuscendo contemporaneamente a contenere il numero dei decessi senza vietare completamente gli spostamenti; lo faranno i cugini francesi, che su scuola ed educazione hanno ancora molto da dire; perché non possiamo prendere spunto da loro?

Spero vivamente che la Ministra Azzolina non anteponga il timore dei ricorsi e del contagio all’importanza dell’Esame di Stato. I docenti che, hanno dato prova, di una buona capacità di adattamento alle nuove condizioni di emergenza, sapranno certamente valutare con l’equilibrio e con la professionalità necessari, ogni singolo caso.
Se vogliamo davvero dare un segnale di speranza dobbiamo fare in modo che la dimensione simbolico-relazionale prevalga sul calcolo normativo che usa la paura  come maschera e difesa.

Andrea Nuti