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Studiare latino e greco: il dibattito è sempre aperto

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Ritorna ciclicamente l’attenzione sulle lingue classiche e sull’utilità di studiare il greco e il latino. È di qualche giorno fa infatti un articolo apparso sull’Huffpost, dove Roberta D’Alessandro, linguista, docente di Sintassi e Variazione Linguistica presso l’ateneo olandese di Utrecht, propone una riflessione sui benefici delle cosiddette lingue classiche. Il punto di partenza della docente italiana apre più di una finestra sulle opinioni ricorrenti a proposito del valore dello studio di greco e latino, e quindi della scelta di iscriversi al liceo classico.

Si assiste infatti da decenni ad un dibattito tra fautori dei classici e coloro che spingono verso una maggiore formazione scientifica, che punta all’operatività e spendibilità delle consocenze e competenze apprese durante il percorso di scuola secondaria. Chi ha ragione? si chiede D’Alessandro, che ricordiamo fu protagonista qualche anno fa di un significativo dibattito sui ricercatori italiani costretti a continuare le loro attività all’estero, con finanziamenti di atenei non italiani.

Lingue classiche: stereotipi e luoghi comuni

Per rispondere e dare un’interessante e stimolante punto di vista la docente di Utrecht va a scomodare autori del passato e del presente, per arrivare ad una delle prime conclusioni a cui il suo contributo mira e che rendono interessante considerare, proprio per provare a dare risposte e opinioni in un campo dove non si è mai arrivati ad un accordo comune. Si comincia con scardinare alcuni dei tanti radicati punti di vista di chi sostiene che le lingue classiche insegnano la logica e siano quindi più importanti dell’inglese.

Intanto, ci dice D’Alessandro, la logica non si impara: c’è già, nella nostra mente umana. Le lingue al massimo possono rifletterla, non crearla. Che poi sia una lingua invece che un’altra, aggiunge, ad insegnare la logica ha ancora meno senso, perché parte dal presupposto che alcune lingue siano più logiche di altre. Questa opinione arriva lontano e si basa sul presupposto che le lingue logiche siano quelle dove l’uso di desinenze ben definite per l’espressione esplicita del caso sia una manifestazione della perfetta organizzazione della grammatica, e dunque rifletta l’ordine logico delle cose. A questo punto i fautori del latino e del greco sostengono che conoscere le grammatiche di queste lingue perfette equivale a conoscere la logica. Bisogna sapere, dice con chiarezza la ricercatrice di Utrecht, che i concetti di soggetto e oggetto sono codificati in tutte le lingue, ma in modo diverso.  Inoltre, l’uso dei casi, altro marcatore che secondo la voce a favore delle lingue classiche denota la loro logicità, si rivela un altro falso: Se l’idea è che più ricco è il paradigma più logica è la lingua allora è bene che ci mettiamo tutti immediatamente a studiare l’ungherese, che ha un numero altissimo di casi, molti di più di quelli del latino e del greco messi insieme, è la provocazione lanciata da D’Alessandro.

Da un altro punto di vista, si sostiene da tempo che lo studio del latino favorisce la precisione nell’uso delle parole, infatti questo focalizza la mente dello studente sulle singole parole e sul loro uso. Si è notato che le persone che hanno studiato il latino a scuola di solito scrivono una buona prosa inglese. Ci può essere una certa quantità di imitazione stilistica, ma più importante è l’abitudine a leggere da vicino e a seguire con precisione i testi importanti, si legge sulla rivista online TeachTought .

Altro punto di forza dei sostenitori di greco e latino è che il loro studio aiuta l’intelligenza. Su questo aspetto la ricercatrice italiana dice chiaro e forte che si tratta di un ennesimo falso: dal punto di vista cognitivo, poiché non sono lingue attive, non stimolano il sistema esecutivo centrale come lo fa una seconda lingua, al massimo possono incentivare la memoria e la concentrazione. Tutto il resto, no. Dal punto di vista cognitivo studiare e parlare una lingua viva è indubbiamente più importante che studiarne una morta.

E il rapporto tra lingue classiche e cultura? Anche su questo aspetto un’altra sferzata di D’Alessandro È come se l’italiano fosse solo quello di Manzoni e non quello che parla il fratello del salumiere sotto casa. Il testo non va confuso con la lingua.

In conclusione, nessuna lingua è più complessa di un’altra: quello che una lingua esprime con una preposizione un’altra lo esprime con l’ordine delle parole, o con il caso, o con un avverbio. Ma allora servono a qualcosa, le lingue classiche? La risposta della ricercatrice è questa volta più morbida e concede al greco e al latino la loro funzione per ampliare la propria cultura personale, per capire il significato e l’origine del nostro vocabolario, per la memoria.

Il latino, il greco e le competenze

Se luoghi comuni e stereotipie a proposito delle lingue classiche rimandano all’approfondimento della visione ricorrente dei loro fautori, se si parla di competenze ci viene ricordato da D’Alessandro che ciò che insegnano meglio, è la disciplina, è che lo studio richiede fatica, che non tutto è risolvibile con l’intuizione, che a volte bisogna incollarsi alla sedia e memorizzare diligentemente paradigmi su paradigmi, eccezioni su eccezioni. Insegnano a esercitare l’arte della pazienza, insegnano a essere meticolosi, a dedicare tempo e concentrazione ad attività che non portano un risultato immediato. Insegnano la perseveranza, che è una dote fondamentale se si vuole riuscire negli studi.