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Una scuola migliore ha bisogno di docenti donne non subalterne

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Ormai l’anno scolastico 2022-2023 è archiviato; mentre buona parte dei lavoratori della scuola è in ferie, Aran e sindacati sottoscrivono una bozza di contratto (periodo: 2019-2021!) di cui il primo Ministro Meloni si dichiara soddisfatta, probabilmente perché non sarà lei ad avere da ottobre un aumento in busta paga pari a 18 euro medi e lordi.

   In questa cornice, che non ci risulta nuova, inserisco una riflessione, che ha origine da un dato di fatto a mio avviso tanto noto quanto clamoroso: l’83% dei docenti italiani è donna, con una punta massima (il 97% circa) nelle scuole primarie.

  Parto da lontano: qualche giorno fa ho sentito per caso, mentre avevo la televisione accesa in attesa di un telegiornale, leggere alcune frasi famose, che mi hanno colpito. Erano frammenti dal Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg, un testo scritto nel 1948  e pubblicato sulla rivista “Mercurio”; seguiva la risposta di Alba de Cespedes, allora direttrice della  rivista.  

  La tesi della Ginzburg, che parte da un’autocritica – e cioè quella di essere stata in precedenza superficiale nel parlare delle donne – è che ogni donna, forte o debole, saggia e sapiente o ignorante che sia, cade prima o poi in un metaforico pozzo, nel quale annaspa, tentando di riconquistare le superficie. “Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne […]

   Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare sé stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi”.

La Ginzburg conclude così: “Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero […].  e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi”.

   A questo scritto, così netto nella sua tesi, così sincero nella messa a nudo di un aspetto del comportamento femminile, risponde Alba de Cespedes, che riconosce la fondatezza delle osservazioni di Natalia ma che rovescia quello che appare un limite in una forza:   “Ma – al contrario di te- io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo in un pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo- non comprenderanno mai”.

  E torniamo alla scuola: è indubbio che la scuola la fanno gli esseri umano che la popolano. Al di là delle strutture (più o meno adeguate e moderne) la qualità dell’insegnamento è affidata all’insegnante: il quale, però, come un tecnico sagace, deve essere in grado di mettere a fuoco tutti i fattori che impediscono al suo lavoro di andare a buon fine, deve rivendicare con forza un giusto trattamento economico, deve entrare nel merito delle “riforme” che da vent’anni, nel nostro disgraziato Paese, hanno avuto una vita media di quattro anni, sostituite da altre “riforme”, anch’esse votate al destino di cattedrali incompiute.

I docenti non dovrebbero subire le mode pedagogiche-didattiche ministeriali, dovrebbero proporre, creare, passare al vaglio della critica; loro tutti i giorni vedono la scuola così com’è e non devono arrendersi di fronte a chi vorrebbe imporre sulla carta una scuola come dovrebbe essere, senza che ci siano le basi materiali per realizzarla. Qui entra come fattore determinante la femminilizzazione del lavoro docente: essendo un dato di fatto indiscutibile, la logica vuole che tutto ciò che non va nell’insegnamento sia da addebitare prevalentemente alle docenti.

Ma, parallelamente, tutto ciò che a scuola funziona è merito delle tantissime donne che fanno questo lavoro. Io credo si tratti, per le donne che lavorano a scuola, di emanciparsi: ed “emanciparsi”, come diceva Natalia Ginzburg, vuol dire non cadere nel metaforico pozzo, ed occuparsi, invece, di quegli elementi che sono fuori di noi e ci determinano. L’opinione pubblica deve essere informata non dai giornalisti ma dalla testimonianza degli stessi insegnanti circa le difficoltà di un lavoro molto impegnativo. Ma le donne, purtroppo e troppo spesso, tendono a farsi carico di tali oggettive difficoltà e a “metterci una pezza”; così loro stesse annaspano, scivolando da un lavoro intellettuale (trasmettere conoscenza è un lavoro intellettuale tra i più alti) ad un’opera di maternage   che, a lungo andare, non fa bene né agli studenti né a loro stesse. Quanti casi di burnout sono legati agli esiti fallimentari di rapporti impostati non sull’autorità dell’adulto ma sull’accudimento del minore?

Questo assumere su di sé la croce di una situazione difficile porta da un lato ad un atteggiamento individualista (quasi  a dire: “Guarda come sono brava IO con i MIEI studenti!”), fortemente confermato dallo spirito concorrenziale che fa tanto comodo all’Amministrazione, dall’altro a non avere MAI la volontà di battersi collettivamente per la risoluzione dei problemi oggettivi. Insomma, seppure questa stortura nasca da una sorta di atteggiamento altruista, ben presto si trasforma in un atteggiamento narcisista e segnato dal delirio di onnipotenza. Da soli, da sole, a scuola non possiamo farcela: dovremmo discutere e lavorare insieme e non, come cattive massaie, pensare soltanto a rattoppare un tessuto così liso che ogni rattoppo non può che accelerarne la trasformazione in straccio inservibile.

Ma – e questa è l’altra faccia della medaglia – se qualcosa funziona a scuola il merito è soprattutto delle donne, di quelle donne che anche in una istituzione sempre più gerarchizzata e burocratizzata, pretendono di essere libere, sono in grado di immaginare una scuola e un mondo migliore e, soprattutto, sono in grado di far intuire ai propri giovani studenti che i valori cui aspirare non sono quelli del successo e del profitto, che la scuola non è l’anticamera di un lavoro futuro ma un luogo in cui l’esercizio della libertà è ancora fruttuoso e possibile.

  Il mio auspicio per il prossimo anno è questo: le donne che “cadranno nel pozzo”  spero ne riemergano portando alla superficie  una nuova consapevolezza di sé e del mondo che le circonda. Ha ragione Natalia Ginzburg: le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle. Proprio per questo dovrebbero essere animate da un forte desiderio di essere libere e da una sensibilità maggiore verso ogni forma di sopruso; proprio per questo potrebbero essere insegnanti eccezionali, con lo sguardo volto verso la realizzazione di una società migliore, più giusta, più gentile ed amorevole.

Alle donne che insegnano spetta la scelta: o adattarsi ad essere le ancelle di un modello educativo arido, senz’anima e di cui vediamo ogni giorno la degenerazione aggressiva e violenta o prendere coscienza del proprio stato e lavorare collettivamente per cambiare, finalmente in meglio, la scuola.