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Violenza giovanile: generazioni risucchiate dal mito dell’auto-realizzazione e mancata coerenza tra il dire e il fare dei genitori

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I genitori lo sanno, nella vita non è tanto quello che si dice, ma conta l’esempio che si trasmette ogni giorno.

Ed i figli lo comprendono. A volte non immediatamente, ma il tempo aiuta. Assieme a tanta pazienza.

A seguire, nelle ultime settimane, le pagine piene di sofferenza delle violenze giovanili, viene sempre in mente questa cruda verità.

Poi, anche questo lo sappiamo, riprendendo un detto africano, l’educazione chiede a monte il coinvolgimento sociale: “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.

Soprattutto nell’odierno “villaggio globale”, fatto non solo dalle esperienze immediate, ma proiettato al tempo stesso in un mondo parallelo, tutto virtuale, che non sempre riesce a mettere i piedi per terra: “non credevo, non pensavo… Ci siamo rovinati la vita per…”.

A chiudere poi il cerchio abbiamo la scuola, istituzione chiamata a trasmettere e a far crescere, attraverso le cosiddette “materie”, quella coscienza relazionale verso se stessi e gli altri che sola può farci “maturare”, cioè abilitare alla vita autonoma e libera. Ma sapendo sempre che la libertà è l’altra faccia della assunzione personale di responsabilità. Perché, al dunque, la responsabilità è sempre e anzitutto personale.

Allora il “villaggio” potrà dire di avere adempiuto al suo compito, cioè quello di accompagnare e stimolare a quell’oltre che, ad un certo punto, si traduce in passaggio generazionale, a quell’”adesso tocca a te, a voi”, che dice la circolarità della storia famigliare e sociale.

Le parole buone e a volte severe, dunque, servono, ma perché il loro significato arrivi sino in fondo devono essere accompagnate anzitutto dall’esempio.

E non è inutile ripetercelo: è proprio su questa a volte mancata coerenza tra il dire e il fare che si staglia tutta la fatica dell’accompagnamento educativo delle nuove generazioni. Quante incomprensioni, in alcuni casi, quanta sofferenza, quanta pazienza!

Queste nuove generazioni, di questi tempi, sono purtroppo risucchiate dal mito dell’auto-realizzazione, come se la vita fosse un prolungamento infinito dell’adolescenza, per la credenza che ogni ombelico debba essere sempre riconosciuto come centro del mondo, in un mondo fatto da infiniti mondi, ognuno solo con se stesso, e tutti gli altri, in una virtuale competizione macho, sempre fondamentalmente maschilista per il mito del più forte. In nome del solo freudiano principio di piacere.

In questa logica, cos’è la violenza se non un mero strumento?

Con quell’adagio agostiniano, male interpretato (“ama e fai quello che vuoi”), che sembrerebbe legittimare tutto, violenza compresa, mentre in realtà era ed è solo un richiamo al grande comandamento evangelico, centrato sul Dio-Amore. Con la Croce come sfondo.

Travisamento che ritroviamo, poi, in quel “carpe diem” oraziano, come se l’istante fosse fine a se stesso, da consumarsi e bruciarsi per se stesso, come se non ci fosse l’attimo-dopo, cioè la vita come un cammino tortuoso.

La scuola, viste le tante crisi di significanza, oggi è forse l’ultimo luogo deputato anche a costringere famiglie ed adolescenti a fermarsi un attimo, per tentare di capire e riflettere sul proprio e comune tempo, il proprio e comune essere, le proprie e comuni aspirazioni, o speranze di vita. Sapendo che poi, ricercando e ricercando, alla fin fine si è infine comunque costretti a non considerare più il proprio ombelico come l’unica prospettiva di senso della vita.

Auguriamo ai nostri ragazzi e ragazze di incontrare, in famiglia, in società e a scuola, figure di “maestri di vita”, che li aiutino ad alzare lo sguardo.

Ed alzando lo sguardo scopriranno, un po’ alla volta, che la paura e la violenza, due facce della stessa medaglia, non sono i due corni principali della vita.

Anzi, che la paura non è il sentimento fondamentale, ma uno dei tanti, venendo a livello sociale per prime l’amicizia e l’ascolto reciproco, perché si esiste solo attraverso l’altro, gli altri, oltre tutti i pregiudizi. Tutti secondo diritti e doveri, cioè libertà e responsabilità. Un refrain che dovremmo tutti, a tutte le età, ripeterci di frequente. Per non lasciarci andare all’inedia, e al presunto, ma non vero, come di recente, “diritto all’odio”.