I lettori ci scrivono

Abolizione dell’ora di religione, una riflessione

Le riflessioni del cav. prof. Carmelo Mirisola contro la recente mozione di abolizione dell’IRC meritano delle risposte.

È vero, come egli dice, “che l’ora di religione ha una sua ben definita ragion d’essere inquadrata… da un Concordato, rivisto nel 1984, che implica degli accordi tra Santa Sede e Stato Italiano”.

Infatti parliamo proprio di una nuova revisione del Concordato, che respingerebbe l’attuale ragion d’essere dell’IRC. Forse egli vuole anche intendere che i parlamentari rischiano di fare i conti senza l’oste, visto che la Chiesa non accetterebbe mai di perdere un così grande privilegio. Comunque il Concordato (anzi l’intero corpus dei Patti Lateranensi) può essere modificato anche senza alcun accordo internazionale, attivando la procedura di revisione costituzionale (art. 7), che è certo via più macchinosa ma del tutto plausibile. Anzi, secondo qualche costituzionalista come Michele Ainis, non servirebbe più neanche modificare la Costituzione, perché il suo settimo articolo è ormai un relitto privo di referente, giacché il Concordato fascista del 1929 non esiste più, mentre quello del 1984 è tutt’altra cosa.

Al contrario di quel che viene scritto, l’attuale Concordato non definisce più l’IRC “fondamento della cultura e della civiltà italiana”. Questa è un’espressione del Concordato fascista, comprensibilmente espunta dal nuovo.

Ovvio invece che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” e che pertanto può aver senso studiarli storicamente. Più ambiguo invece riconoscere “il valore della cultura religiosa”. Se si trattasse di una cultura condivisibile e di un valore universale, non si vedrebbe perché poi concedere a famiglie e studenti “il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”.

La stessa obiezione può essere mossa alla semplicistica affermazione che l’IRC prevede “tra le altre cose, anche la storia delle religioni e… vuol far conoscere quel cristianesimo che, ben lungi dall’essere religione di stato, è invece alla base della nascita storica, artistica e valoriale della nostra Europa”. La storia europea e la storia delle altre religioni hanno un posto residuale nei programmi di IRC, dove subiscono una trattazione confessionale piegata all’apologia del cattolicesimo, mentre tutto sommato sono presenti in forme molto più imparziali e ricche nei programmi degli altri insegnamenti scolastici.

Ancora, si dichiara che “non siamo dunque di fronte ad un insegnamento catechistico”, ma pure su questo punto occorrerebbe chiarirsi: se con “catechismo” intendiamo “l’insieme dei principi della dottrina cristiana, formulati in una serie di domande e risposte, soprattutto per l’istruzione dei giovani” (Treccani), magari in preparazione alla prima comunione o ad altro sacramento, allora è evidente che non è il caso nostro; se invece con “catechismo” intendiamo una qualsiasi “istruzione religiosa”, allora non si vede come una materia chiamata “insegnamento della religione cattolica” potrebbe non essere ritenuta tale. Difficile dunque affermare che l’IRC ha “pari dignità rispetto alle altre” materie. Nessun’altra ha carattere confessionale, prevede programmi decisi da organismi come la Cei, si serve di docenti e manuali controllati da una Chiesa e fuoriesce da qualsiasi disciplina accademicamente riconosciuta dall’università pubblica nel nostro Paese.

Mirisola, mutando prospettiva, fa pure presente che i docenti di IRC o aspiranti tali “hanno superato un lungo iter universitario mirante a prepararli proprio per questo insegnamento”. Parliamo tuttavia di un iter confessionale cattolico. Mentre che questo prepari a “comprendere le problematiche degli alunni nel singolo e nella relazionalità” è solo l’opinione di tali istituti e delle curie che concedono a chi ne esce le autorizzazioni a impartire questo insegnamento. Si tratta di scelte private, dei singoli individui o degli enti religiosi, che non possono condizionare le politiche scolastiche dello Stato. Di certo la scuola non può essere posta “al servizio dei docenti di Religione Cattolica per cercare di risolvere i problemi che affliggono questa categoria”, avendo essa ben altre finalità istituzionali, al servizio della propria utenza.

Per non abusare di questo spazio, non mi dilungo sulle bizzarrie dell’evocato concorso “bandito in seguito alla Legge 186/2003”, che ora qualcuno vorrebbe replicare: un concorso sui generis per stabilizzare docenti precari di un insegnamento precario (sia per la sua facoltatività, sia per la discrezionalità vescovile), privo di un programma specialistico su cui chiamare a rispondere i candidati davanti a una commissione nominata dallo Stato, ma comunque in grado di garantire un posto fisso persino a quanti dovessero un domani perdere il benestare della curia, con conseguente scavalco del personale della scuola che per quello stesso posto ha svolto regolari concorsi entrando in apposite graduatorie.

Concludo ricordando che tra i valori che i programmi scolastici dovrebbero trasmettere per formare i cittadini di domani ci sono pure la laicità, la capacità di distinguere le proprie opinioni di fede dall’autentica conoscenza e l’onestà intellettuale.

 

Andrea Atzeni

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