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Alunni che scappano via dalla scuola, figli di genitori che non credono nei docenti

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Alunni che abbandonano la scuola, “drop-out”. L’annoso tema della dispersione scolastica è stato inevitabilmente ripreso dagli interventi del ministro Bianchi a Catania, nel corso del G20 dedicato all’istruzione e al lavoro. Secondo rilevazioni ISTAT del 2019, la dispersione scolastica in
Italia ha raggiunto il 13.5%, un dato in netta diminuzione rispetto al decennio precedente, ma che ci vede ancora lontani dal 10,2% della media UE.
Ma cosa spinge tanti ragazzi ad abbandonare gli studi precocemente o a maturare nei confronti della scuola un rifiuto profondo, che si esprime spesso anche nelle forme della cosiddetta dispersione implicita (con frequenza “platonica” dell’alunno, ma senza alcun effettivo sviluppo
formativo)?
Fra i tanti fattori in gioco in questo triste fenomeno, le evidenze scientifiche puntano il dito su due fondamentali: sul benessere psicologico sperimentato a scuola da parte dell’alunno e sulle aspettative dei genitori sui ragazzi e sul ruolo della scuola rispetto al loro futuro. Il peso delle
aspettative, quindi, supera quello della carenza di stimoli di alto livello cognitivo che si registra in alcuni contesti familiari.
Non a caso, i sistemi scolastici che funzionano meglio a livello mondiale (Corea del Sud, Singapore, Hong Kong, Finlandia, Giappone), pur così diversi fra loro, hanno in comune la considerazione in cui vengono tenute, dalle famiglie e dalla società nel suo insieme, la scuola ed il ruolo sociale degli insegnanti. Il che fa pensare che, se non si parte dalla volontà di potenziare concretamente questo riconoscimento sociale, non c’è riforma scolastica che tenga.
L’alleanza educativa scuola-famiglia si focalizza qui su un punto semplice quanto fondamentale e così riassumibile: Mettiamoci d’accordo una buona volta sul valore della scuola rispetto al futuro di vostra figlia, di vostro figlio.
Ma perché tanti genitori hanno maturato una così bassa considerazione del sistema scolastico? Uno dei principali motivi è che molti di loro hanno fatto in precedenza, in prima persona, una pessima esperienza di vita a scuola, per cui hanno sviluppato una idiosincrasia epidermica verso aule e libri (e professori).
Questo fattore di propagazione sociale della disaffezione alla scuola dovrebbe porre all’attenzione dell’opinione pubblica la natura pericolosamente sistemica del fenomeno della dispersione.
Il rischio sociale che va considerato va inquadrato insomma nel fatto che tale sentimento di disaffezione non si chiude nello spazio di drammaticità di una esistenza singola. Esso tende infatti a spalmarsi diacronicamente su più generazioni, secondo meccanismi di contagio sociale che fanno sì che lo studente disperso oggi si presenti come un perfetto candidato a trasmettere ai figli la stessa sensazione di avversione alla scuola che ha maturato nella propria dolorosa esperienza formativa.
Una sorta di staffetta generazionale in cui si corre tutti appassionatamente in una stessa masochistica direzione, che purtroppo è quella esattamente opposta rispetto al traguardo (lo sviluppo culturale della persona) che dovrebbe essere raggiunto.
La variabile fondamentale in mano ai docenti, oltre al non semplice rapporto scuola-famiglia, rimane quella del lavoro mirato, costante e faticoso sul benessere psicologico degli alunni a scuola. Perché è ampiamente dimostrato che una buona relazione educativa ed un ambiente di apprendimento improntato alla serenità emotiva e relazionale, indipendentemente dalla qualità dei voti riportati in pagella dall’alunno, possono riuscire a sovvertire meccanismi demotivanti e destini di fallimento altrimenti dettati dal gap sociofamiliare di partenza.