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Brunetta: l’iniquità anticostituzionale della “tassa di malattia”

Da economista aspirante al premio Nobel, Brunetta ha finito col farsi prendere dall’irresistibile fascino della politica e del pluri-poltronismo: parlamentare europeo, deputato, ministro, auto-candidato sindaco al comune di Venezia, professore universitario, editorialista nel tempo libero, vice coordinatore di Forza Italia, egli svolge alacremente tutte le sue molteplici attività presenziando ovunque.

C’è chi gli dà credito, e chi lo considera uno dei massimi esponenti della politica spettacolo. Ha costruito la sua fama mediatica cavalcando il cavallo buono dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione. E come dargli torto? Certe percentuali di assenteismo avevano del patologico, e i disservizi, non rari, fanno arrabbiare il comune cittadino.
Partendo quindi da una oggettiva analisi della situazione, ci si sarebbe aspettati da un super economista un piano strategico di risanamento del sistema, tale da correggere alle radici i vizi tradizionali. Brunetta ha scelto invece la via più sbrigativa, ma anche la più iniqua: fare cassa e audience sulla pelle dei malati veri.
Dimenticatosi di aver giurato sulla Costituzione, che tutela il diritto alla salute, col decreto 112 del 2008 il ministro ha voluto imporre la “tassa di malattia”, ovvero una decurtazione sullo stipendio per i primi dieci giorni a tutti i dipendenti pubblici colpevoli di ammalarsi. Visto poi che la suddetta categoria di fannulloni meritava di essere bastonata ancora un po’, e visto che l’opinione pubblica era dalla sua, ha imposto l’ulteriore “punizione” di un regime di visite fiscali di 11 ore al giorno. Il malato doveva, in pratica, rimanere a disposizione del datore di lavoro per 77 ore settimanali, più del doppio dell’orario di lavoro normale: un abuso intollerabile nei confronti dei malati veri (si pensi che certi lavoratori nella scuola hanno un part time 9-12 ore alla settimana, ma venivano automaticamente sottoposti allo stesso regime in caso di malattia). Il provvedimento appare tanto più ingiusto considerando che i lavoratori del settore privato hanno continuato ad avere le solite fasce orarie di quattro ore al giorno. Qualche ufficio più realista del re è arrivato inoltre ad applicare le trattenute stipendiali anche per i periodi obbligatori di convalescenza post ricovero o post intervento chirurgico.
Chi si aspettava che almeno i sindacati facessero qualcosa per sostenere il diritto alla salute dei malati veri è rimasto deluso: quando era in gioco l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ci sono state proteste e manifestazioni che hanno riempito le piazze, ma per l’articolo 32 della Costituzione assolutamente nulla di plateale.
Qualcuno però ha cominciato a fare ricorso contro l’iniquo provvedimento, avendone tutte le ragioni: un diritto sacrosanto odiosamente calpestato, proprio nel momento in cui la persona ammalata è vulnerabile, deve sostenere spese extra per curarsi e magari non è in grado di tutelarsi.
Fatto sta che, un anno dopo, il ministro ha dovuto rimangiarsi in parte le sue disposizioni, come la palese assurdità dell’orario di reperibilità, creando però ulteriori ineguaglianze nei confronti dei malati veri: infatti, chi è dipendente statale del comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco, non ha alcuna trattenuta sullo stipendio, ma se è un insegnante, e prende l’influenza A con l’obbligo di stare a casa, anche per non essere contagioso, è comunque soggetto alla “tassa di malattia”. Tuttavia, la disparità di trattamento fra malati veri, per giunta dipendenti della stessa Pubblica amministrazione, fa a pugni con il diritto costituzionale alla salute, col diritto costituzionale all’eguaglianza, col diritto costituzionale all’imparzialità della P.A..
Anna Maria Bellesia

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