Home I lettori ci scrivono Disturbi d’ansia e paura: cosa può fare la didattica?

Disturbi d’ansia e paura: cosa può fare la didattica?

CONDIVIDI

Nel corso dell’esistenza oltre un quarto della popolazione sperimenta un disturbo psichico e circa il 20% d’essa sperimenta un disturbo di ansia come fobie, panico, pensieri caratterizzati da rituali compulsivi, tutte legate ad una normale reazione emotiva, situazione potenzialmente minacciosa che determina un’attivazione del sistema simpatico.

L’ansia e la depressione possono trovare intima connessione in un’ampia varietà di sintomatologie, dando luogo ad una diversificata apparizione di sintomi e disturbi che vanno dall’ansia pura alla depressione pura, transitando per una sequela di casi e mescolanze. L’ansia non è solo un limite o un disturbo ma, riconosciuta e analizzata, può diventare uno strumento di analisi di se stessi ed essere impiegata anche come una risorsa. Essendo una condizione fisiologica dell’individuo rimane comunque utile in parecchi momenti della vita; solitamente, i disturbi d’ansia nelle donne sono presenti in misura doppia rispetto agli uomini.

Da una definizione presa dal vecchio trattato di Psichiatria di Romolo Rossini emerge che “L’ansietà è priva di contenuto, anideica, libera e fluttuante, come nella nevrosi d’ansia; oppure a contenuto immaginario come nelle psicosi, nella ipocondria, nelle fobìe (V.Porta)”; mentre “L’angoscia (che spesso va di pari passo con un sentimento di colpa) esprime sempre il timore dell’annientamento del proprio corpo o della propria personalità, della disintegrazione dell’unità dell’io, della dissoluzione di sé (May; Cazzullo)”.

La medicina moderna sostiene che non vi sia una base organica per i disturbi d’ansia, i cui sintomi derivano dall’iperattività delle aree cerebrali coinvolte nell’ansia normale.

In tutto ciò, il rapporto ansia – didattica e didattica – paura, trova nel mondo dell’istruzione, soprattutto quello universitario, la sua massima esternazione ed amplificazione. Tutti quanti sappiamo quanto sia estremamente deprimente seguire un corso, cercare di imparare, esercitarsi e ripetere tanto quanto si è studiato, per poi scoprire di non sentirsi abbastanza preparati e decidere di non affrontare l’esame o accontentarsi di un voto che rasenta la mediocrità.

Invero, è necessario distinguere l’ansia da apprendimento dall‘ansia da valutazione, poiché è lo sforzo di valutare quantitativamente e qualitativamente questa paura che di fatto ostacola lo studente nel dare il meglio di sé, ed è proprio l’ansia che frena la manifestazione della soggettiva abilità e capacità di dimostrare e perseguire efficaci risultati in una qualunque disciplina. E’ noto come la percezione che gli studenti hanno di sé e delle proprie risorse e/o abilità cognitive e gli effettivi risultati conseguibili in una materia sia quasi sempre falsata perlopiù per il sopraggiungere di attacco di panico che ha sia un’importante componente biologica che psicologica.

L’insorgere dell’ansia, oltre ad effetti somatici, interferisce con l’attività del ragionare, con la comprensione e l’apprendimento; inoltre può produrre disordine mentale, una percezione aberrante, nonché un restringimento della qualità di concentrazione, della rapidità di richiamo di nozioni acquisite e di elaborazione delle stesse. Tacito appare che la situazione di malessere non può non avere risvolti negativi sullo scopo che la scuola, ed ogni insegnante, si prefigge. A ben ricordare il senso etimologico del termine educazione, dal greco ex-duco, ci proietta al significato del mentore, di colui che guida l’alunno e che lo conduce “per mano” verso un intenzionale traguardo culturale e di crescita.

Questo duplice obiettivo, tuttavia, sembra apparire permeabile al singolo allievo in apprendimento che non di rado scoraggia l’attività d’insegnamento stessa, tant’è che l’idea prevalente ancor oggi, assai diffusa un po’ in tutte le realtà scolastiche, è quella dell’insegnante visto come colui il quale ha come obiettivo quello di “travasare” dentro la testa dell’alunno qualcosa che si ritiene valida se non parimenti fondamentale, oscurando l’attività di educazione stessa, quasi ad apparire in antitesi con l’insegnamento.

Non è un’idea nuova o una percezione di fine secolo, anzi, si tratta di una vera è propria metafora scalpellata sulle mura di molte scuole ed università germaniche che nel XVII sec. è passata come la metafora dell’imbuto di Norimberga. Tuttavia un’altra errata convinzione della didattica, convinzione passata per buona in tutta l’Europa fino allo scorso secolo, è quella che  sia necessario per ogni docente rendersi periodicamente conto di cosa lo studente ha recepito in termini quantitativi più che qualitativi. Ecco allora che esso viene esaminato, sottoponendolo a delle domande più o meno illegittime, ovvero quelle per le quali si conoscono le risposte, ascoltandolo e ponendo in essere una valutazione quasi come fosse una sentenza scritta nero su bianco. E’ certamente questa impostazione, ancora vigente in molte e dotte menti di insegnanti, che alimenta la paura del giudizio compromettendo per lo stesso motivo la performance dell’alunno di fronte ad un compito o ad una interrogazione, ciò perché è del tutto naturale, come abbiamo già anticipato, che un ruolo di prim’ordine viene svolto dalle emozioni. Coinvolgere uno studente, ancor più se naturalmente incline a stimolazione negativa di ansia, è sempre difficile, al pari della presenza di una malattia o deficit sensoriale permanente o di situazione temporanee come la dipartita di una persona cara.

Ecco allora che il rispetto di tempi e modi, lo scrutare la soggettività al fine di rilevare o dare modo di far esternare la sofferenza che determina un blocco da prestazione, significa realizzare un collegamento tra obiettivi didattici – educativi e allentamento delle tensioni, preoccupazioni, disagi dell’alunno che non sempre è in grado di comprendere il proprio malessere o di dargli un nome. Anche questo è un educativo compito, il sapersi soffermare sulle soggettive difficoltà, leggendo oltre, compito che ogni buon docente deve saper assolvere per far si che si determini quel legame fra la consapevolezza che l’alunno ha di sé e ciò che egli ha realmente imparato e compreso. Solo così le emozioni provenienti dall’ansia e dalla paura possono essere soffocate a beneficio di uno spazio mentale in grado di riconoscere gli oggetti del sapere dentro e fuori il tempo scuola. Si tratta di una sfida educativa che va affrontata con ogni esclusivo ed irripetibile individuo. Mentre un tempo era sufficiente aprire un manuale o un’enciclopedia adesso basta accedere ad Internet e sottoporre una query-string  ad un motore di ricerca e/o cliccare su un link  ma, a ben intendere, questo non svilisce il ruolo dell’insegnante, semmai lo potenzia sia sotto il profilo meta cognitivo che professionale, poiché  v’è la consapevolezza che il dominio digitale consente di accedere ad una massa di informazioni incontrollata e non di rado discordante.
Occorre saper cercare le informazioni con contenuto formativo, comprenderle, confrontarle, valutarle, ma soprattutto occorre acquisire quella abilità di saper mettere in relazione diverse informazioni affinché si traducano, per mezzo di un dotto e abile filtro formativo (il docente), in autentica formazione e dunque fonte utile da memorizzare.

Se da una parte è del tutto impossibile raggiungere un’intesa globale tra gli Studiosi sulla definizione dell’ansia, poiché ciascuno la descrive con parole proprie e concetti più o meno personalistici, anche se condivisibili, in quanto è avvertita e vissuta in modo assolutamente soggettivo, dall’altra è certamente possibile raggiungere un’intesa tra i professionisti educatori e formatori della scuola non solo sulla distribuzione della conoscenza, prosecuzione di quell’opera iniziata dagli enciclopedisti del VXIII secolo, ma di saper essere e divenire gli enciclopedisti del moderno presente e futuro in grado di fornire ad ogni discente le chiavi, non del semplice sapere e comunicare, quanto dell’accesso ragionato e autonomo ai diversi saperi e fonti comunicative diversamente distribuiti.

In ultima analisi non è da escludere che l’ansia e la paura possano e debbano trovare necessaria pacificazione con quel prolungamento naturale del tramandato e tradizionale mestiere di insegnare, arricchito di una nuova veste professionale, caratterizzato da positiva e particolare tensione  verso ciò che assai approssimativamente viene definito “studio a casa”.

 

Francesco Augello

 

LEGGI IL CONTRIBUTO INTEGRALE