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Docenti e cellulari, Galiano: “Hai voglia a dare tanti buoni consigli, se poi quello che resta è solo il cattivo esempio”

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Ancora polemiche sui cellulari a scuola, ma stavolta il dito è puntato contro quei docenti (pochi) che non sono un vero e proprio esempio. A sollevare la questione è il prof Enrico Galiano che sul proprio profilo Facebook apre una polemica sul cattivo esempio.

Il prof ha scritto: “Quando vado nelle scuole, c’è sempre una scena che si ripete. Sempre, tutte le volte. A un certo punto, che sia nei posti sulle retrovie, al centro o davanti, da qualche parte si accende, nel buio, una luce bluastra. Che cosa sarà mai? Un fuoco fatuo penetrato nel teatro grazie a un refolo? No, ovviamente: è qualcuno al cellulare. Qualcuno che ci resta incollato dall’inizio alla fine, fra l’altro, immagino collegato a una qualche powerbank. E quasi sempre – e sottolineo quasi sempre – il volto vagamente illuminato al buio dal display non è quello di qualche ragazzo annoiato a cui non può fregare di meno di quel che ho da dire, e preferisce fortnite al racconto di qualche mito greco: no, il volto rivelato è quello di… un adulto”.

E continua: “Un professore, una professoressa. Talvolta, anzi spesso, anche più di uno. Ora: sono appunto uno o due, a volte tre, ok, e che la maggior parte dei miei colleghi insegnanti invece è sempre molto partecipe e interessata (e non lo dico per evitare il linciaggio nei commenti giuro). Però c’è una cosa che va detta, perché secondo me molti adulti – e mi ci metto dentro anch’io eh – ancora non l’hanno capita: non sono mai le parole, è sempre l’esempio. Ragazzi e ragazze apprendono prima di tutto dall’imitazione: dei loro coetanei, certo, ma anche degli adulti di riferimento. Hai voglia a dare tanti buoni consigli, se poi quello che resta è solo il cattivo esempio”.

“Non possiamo nasconderci – conclude – loro ci guardano sempre e, che lo vogliamo o no, riproducono quello che ci vedono fare. E così, quando siamo lì a puntare il dito, a deprecare certi loro comportamenti che ci fanno arrabbiare, chiediamoci sempre, prima di tutto: ma non è che sono io, che gliel’ho insegnato?”