Home I lettori ci scrivono Don Milani e la scuola dell’inclusività, a che punto siamo?

Don Milani e la scuola dell’inclusività, a che punto siamo?

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Dalla parte degli ultimi”. “Prendersi cura degli”. Due principi cardine della piccola scuola di Barbiana da non dimenticare e una linea educativa ben chiara e mirabilmente esposta da Don Milani nella famosa “Lettera ad una Professoressa”, dove si insiste sulla necessità e il dovere da parte delle Istituzioni, di istruire tutti, dare a tutti le stesse opportunità, non lasciare indietro nessuno.

Una scelta educativa, non solo cristiana ma anche umana, impossibile da sottovalutare o minimizzare, necessariamente da seguire e concretizzare.

Ed e proprio questo che scuola italiana, nel tempo, ha cercato di fare (operazione non semplice a livello nazionale), con costanza ed impegno, fino ad arrivare, in questi ultimi anni a declinare ulteriormente l’intuizione del Sacerdote nella ‘scuola dell’inclusione’. Una scuola che includa tutti, anche (specialmente) coloro che hanno difficoltà non solo economiche-sociali, ma anche fisiche o ‘caratteriali’ (giovani afflitti da evidente difficoltà nell’apprendimento, D.S.A, B.ES., o alunni oppositivi).

Atti legislativi, nuove pratiche metodologiche e continui studi ed esperimenti pedagogici e psicologici hanno cercato di dare chiara visibilità, definita fisionomia e attiva realizzazione a un tale nobile obiettivo: dare la possibilità ad ogni studente, anche fragile e maggiormente bisognoso di sostegno (varie sono le debolezze e richiedono interventi di sostegno diversi), di partecipare al processo educativo, per avvicinarsi e arrivare pienamente all’istruzione.

Ormai la strada è tracciata e, ogni anno, si cerca di implementarla, accrescerla, migliorarla ed ‘esaltarla’, indicandola come l’unica via vera ed efficace perché ogni giovane possa vedersi riconosciuto il suo diritto all’istruzione e alla promozione culturale e, nel contempo, cercando di sensibilizzare il legislatore a scommettere sempre di più su questa (quasi una sfida) su questa linea educativa e formativa.

Anzi, per incentivarlo in tale direzione, ci si attiva (soprattutto nei periodi estivi) ad organizzare convegni o incontri sull’argomento, incontri e riunioni tesi a fare il punto della situazione, a evidenziare dati altamente positivi (o comunque soddisfacenti) e a ‘osannare’ i metodi educativi italiani.

Anche per questo si esalta il ruolo di apri-pista dell’Italia (insieme ad altri Paesi quali Portogallo, Spagna o Grecia) verso questa ‘democratica’ mentalità educativa, una posizione più avanzata, insomma, rispetto ad altri Paesi europei, più scettici o maggiormente cauti ad una scuola ‘aperta’, libera e uguale, un scuola dove nessuno è secondo e tutti possono dare il loro contribuito per uno sviluppo pieno e globale.

Ma è proprio così? La scuola dell’inclusione conosce solo successi e ha superato tutti i problemi del passato?

Le cose non sono così semplici, almeno per tre motivi.

1) Portare a termine con successo la missione dell’inclusione richiede un totale cambiamento di mentalità e di metodo dei parte dei docenti e un diverso rapporto tra docenti curricolari e di sostegno. Operazione non semplice.

2) Quanto di positivo è stato fatto lo si può constatare maggiormente nelle scuole secondarie di primo grado, meno negli Istituti tecnici e professionali, in minima parte nei licei.

3) Il progetto inclusivo (a fronte di fasce deboli sempre più in aumento), necessità continuamente di fondi e risorse umane (e di stabilità nell’organico) e non sempre l’intervento dello Stato e idoneo e adeguato, spesso oscilla, di anno in anno, in relazione alla quantità di soldi che può mettere in campo in ogni finanziaria.

Insomma, si è fatta molta strada, ma tanta bisogna ancora farne.

Rimane però un dubbio (o due)? La scuola dell’inclusione è efficace per tutti? Gli ultimi risultati dell’INVALSI non sembrano ‘parlare’ pienamente in questo senso (sarà stato l’effetto ‘long-covid’?). Forse è necessario un maggior impegno dello Stato e, in particolare, di tutti gli operatori scolastici.

Ancora, immaginare una scuola che pensa a tutti significa anche non limitare, penalizzare, emarginare o sterilizzare gli alunni talentuosi (le ‘unicità’) e non impedirgli di sprigionare tutte le loro grandi potenzialità. Ma questo viene fatto?

Se ne parla, è vero. Si afferma che è possibile integrare l’inclusione e l’attenzione all’ “unicità” per creare un ambiente educativo che rispetti e valorizzi le diverse esigenze e potenzialità di tutti studenti. Si comprende l’importanza di prendersi cura anche dei ragazzi intellettualmente ‘validi’(certo ognuno ha i suoi talenti) e di metterli nelle condizioni più idonee per sviluppare al massimo le loro capacità, per loro stessi e per la società.

Ma è possibile unire ‘inclusione’ e ‘unicità’, creare un giusto equilibrio tra esigenze non sempre o non del tutto sovrapponibili? In teoria sembra fattibile, ma, certo, non di facile attuazione.

Ci vorrà pazienza, tempo e anche l’umiltà di ammettere eventuali sbagli, anche il coraggio di disfare quanto già fatto, se non produce gli effetti sperati, e ricominciare da capo. Con calma, senza fretta. La scuola è una cosa seria e deve restare lontano da propagande o opportunistici proclami. La scuola non può essere strumentalizzata, deve restare neutrale, al di fuori da lotte politiche o volontà di protagonismi.

La scuola è un tesoro per la società, un tesoro di tutti (a tutti donato perché da tutti venga custodito e potenziare) e tutti, senza egoismi o doppi fini, in perfetta onestà e limpidezza, con grande amore, con comunione di intenti, debbono prendersene cura.

A questo punto i più scettici e diffidenti potrebbero far sorgere un dubbio. La scuola dell’inclusione è veramente l’unica via, la via maestra per il successo formativo? Qui entriamo, però, in un altra questione (o provocazione). O no?

Andrea Ceriani

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