Home Attualità Gianni Vattimo e il suo “pensiero debole”: la responsabilità di pensare il...

Gianni Vattimo e il suo “pensiero debole”: la responsabilità di pensare il mondo dopo la morte di Dio

CONDIVIDI

E’ morto ieri, 19 settembre, Gianni Vattimo, filosofo torinese di 87 anni, allievo di Luigi Pareyson, compagno di studi (e di lavoro alla Rai) di Umberto Eco, politico.

Gianni Vattimo è probabilmente il più importante filosofo italiano degli ultimi decenni. Figura complessa, ironica e poliedrica, cattolicissimo e omosessuale, padre del pensiero debole, politico che si richiama al comunismo proprio quando il comunismo storico (tipo URSS) è morto e sepolto.

Il miglior ricordo che ho letto oggi si deve al suo amico, discepolo e poi filosoficamente antagonista, Maurizio Ferraris (Corriere della Sera pag. 43).
Ma quale è il punto chiave della sua filosofia, il suo apporto originale al pensiero contemporaneo?

Vattimo si inserisce sulla scia del pensiero post-moderno (secondo il quale le grandi narrazioni sono definitivamente tramontate e con loro la supponenza della ragione che pensa che poter “catturare” il mondo e la realtà dentro i suoi schemi) e con Pier Aldo Rovatti (che insegnava a Trieste e che a Trieste rimane ancora legatissimo) elabora il concetto di Pensiero Debole (Feltrinelli editore 1983).

Ma che cosa significa pensiero debole?

E’ il pensiero che prende atto definitivamente della morte di Dio (“Dov’è andato Dio? […] ve lo voglio dire! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! […] dell’odore della putrefazione non sentiamo ancora nulla? – anche gli dei imputridiscono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso” (F. Nietzsche, La Gaia Scienza) e delle sue conseguenze.
L’uccisione di Dio chiede infatti al soggetto umano di prendere decisamente in mano il proprio destino. Non è possibile né restaurare il “dominio di dio” né abbandonarsi ad un nichilismo assoluto.
Non abbiamo ucciso Dio per sostituirlo con l’Umano, ma per capire che nel mondo tutto è fragile, storico, interpretabile. Non esistono fatti, dice Nietzsche, ma solo interpretazioni.

Ma come ridare senso all’umano in un tempo e in uno spazio che si sostiene non abbiano un senso determinato, definito, chiaro?

Per questo il pensiero è debole: non perché gli manchi vigore, ma perché riconosce che non è più possibile costruire grandi narrazioni ed anzi che i surrogati delle grandi narrazioni (primo tra tutti una concezione assolutizzata della scienza) vanno anche essi combattuti affinché non diventino essi stessi nuove divinità, idoli.
Nel volume “Etica dell’interpretazione” Vattimo affronta così il tema cruciale che riguarda come realizzare la propria originaria vocazione etica senza restaurare la metafisica né abbandonarsi alla futilità di una relativistica filosofia della cultura.
E per farlo Vattimo si riavvicina ai vangeli e legge  la kénōsis di Dio in Gesù Cristo (si veda la Lettera ai Filippesi (2,7) di Paolo), ovvero l’incarnazione, l’abbassamento di Dio al livello dell’uomo, come segno che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica.

La secolarizzazione  diventa così per Vattimo  «un modo in cui la kenosis, cominciata con l’incarnazione di Cristo continua a realizzarsi in termini sempre più netti, proseguendo l’opera di educazione dell’uomo al superamento della originaria essenza violenta del sacro e della stessa vita sociale» (Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la chiesa?, Garzanti 1999 pag. 42).

L’originalità di Vattimo sta in questa sua capacità di decostruire per tentare poi di costruire un senso della vita individuale e sociale “senza fondamenta”.
«La sola verità che la Scrittura ci rivela – scrive Vattimo in Etica dell’interpretazione –, quella che nel corso del tempo, non può subire nessuna demitizzazione – giacché non è un enunciato sperimentale, logico, metafisico, ma è appello pratico – è la verità dell’amore, della caritas».

Qui va trovata la via per la costruzione di una società giusta e in pace.
Riflessioni, quelle che ci ha consegnato Gianni Vattimo, particolarmente attuali. Sia nella pars destruens (la fine della metafisica e dei suoi grandi racconti come diceva Lyotard) che, soprattutto, nella pars construens. Con l’appello ad evitare di sostituire il Dio che è morto con nuovi idoli e con l’invito a ripartire dalla caritas, dall’amore. Dalla debolezza di un dio che si è fatto uomo.

In tempi in cui si costruiscono certezze sul nulla, e le si pretende anche parenti della verità assoluta, Vattimo ricorda a tutti che la debolezza è la caratteristica chiave dell’umanità.