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I dati Ocse-Pisa e il disastro nei piccoli paesi

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Per capire dove bisogna intervenire, spiega il sito online, abbiamo guardato i dati Pisa con una maggiore definizione e da una nuova prospettiva. Abbiamo suddiviso l’Italia in modo trasversale, dividendo gli studenti in cinque gruppi, in base alla dimensione del comune della scuola frequentata: le grandi città (sopra i 650 mila abitanti), quelle medie (100-650 mila), quelle piccole (15-100 mila) fino a scendere ai paesi (3.000-15.000) e ai piccoli paesi (sotto i tremila abitanti). 
Scomponendo i dati Pisa lungo queste direttrici ci accorgiamo che l’eterogeneità non è soltanto regionale. Gli studenti nelle grandi e medie città ottengono nelle prove matematiche punteggi (rispettivamente 501 e 495) superiori alla media Ocse. 
Esiste una significativa relazione inversa fra dimensione del comune di residenza e punteggi Pisa: nei paesi con meno di tremila abitanti il punteggio medio tocca il minimo di 452 punti per cui appare chiaro che la scuola delle piccole cittadine e dei paesini rappresenta la vera emergenza del sistema educativo nazionale. Fatto importante perché il 76% degli italiani vive in comuni con meno di 100 mila abitanti e il 10% circa in comuni con meno di tremila abitanti 
Utilizzando i dati Pisa è possibile incrociare la disaggregazione per dimensione del comune della scuola con quella regionale. 
Ci sono regioni come la Lombardia dove gli studenti posseggono livelli di competenza non solo soddisfacenti, ma molto omogenei su tutto il territorio. Regioni come la Basilicata e la Campania mostrano analoga omogeneità territoriale, ma l’uniformità è al ribasso. In Sardegna la differenza tra Cagliari (che ha un punteggio già basso) e i piccoli paesi è abissale: quasi 200 punti. E anche in Toscana i risultati scolastici maturati nei piccoli paesi sono drammaticamente al di sotto della media regionale. 
Una parte delle differenze territoriali che abbiamo rilevato con la nostra analisi, spiega Pagina99.it, è da attribuire alla diversa composizione socio-demografica delle famiglie nelle città e nei piccoli paesi, dove il livello di istruzione di base è più basso. Le differenze sono anche, e soprattutto, dovute alle caratteristiche delle scuole, che nei grandi centri urbani sono più grandi, hanno più risorse e un più alto rapporto studenti-docenti. È probabile poi che nelle grandi città, specie negli istituti del centro, vadano a concentrarsi gli insegnanti migliori, che vedono l’accesso alle scuole frequentate dalle classi sociali più agiate e istruite come un’aspirazione di carriera. 
Studi importanti dimostrano che uno Stato giusto dovrebbe porsi il problema di pre-redistribuire le abilità intellettuali (gli skill) nella prima fase della vita, piuttosto che redistribuire le risorse nella seconda parte. Molti studi accademici stimano che un euro investito in istruzione primaria rende annualmente fra il 7 e il 10% all’anno. Più del rendimento medio annuo del mercato azionario americano. Investire in educazione primaria è un modo efficiente per aumentare la produttività di un paese e per ridurne le ineguaglianze economiche. 
A questo punto abbiamo degli elementi in più per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio su come e dove investire nell’istruzione. Non certo con interventi “a pioggia”, come è sempre stato fatto in Italia, ma puntando ad alcuni target specifici.