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La storia ci insegna

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La storia ci insegna…Espressioni come “l’assalto alla Bastiglia”, “la presa del Palazzo d’Inverno”, o “l’incendio del Reichstag” vengono sprecate in questi giorni per descrivere i fatti accaduti a Washington il 6 gennaio scorso all’United States Capitol. Sempre convinti di quanto sia importante che l’attualità entri nelle aule scolastiche, ancor più se virtuali e quindi solo apparentemente più immateriali e asettiche, riteniamo che siano già molti gli stimoli per aprire il libro di storia alle pagine giuste e studiare la nascita degli Stati Uniti d’America, la Costituzione americana e la formazione del Congresso del 1787, innanzitutto; poi quando avvennero, perché e a quali eventi diedero inizio i fatti sopra citati e i motivi per cui vengono paragonati alla rivolta dei sostenitori di Trump.

Discutere poi con gli studenti se e quanto questi paragoni possano essere più o meno impropri è un’altra imperdibile occasione per rendere una lezione di storia viva, utile e interessante. Tuttavia, nel commentare la non accettazione del risultato elettorale da parte del presidente uscente Trump, si potrebbero richiamare altri insegnamenti che la storia ci ha lasciato a prezzo di tanta inaudita violenza e di infinito dolore.

Penso al mito della vittoria mutilata, con le rivendicazioni della Dalmazia e di Fiume, tema che Gabriele d’Annunzio sviluppò con forza e che fu ripreso dai nazionalisti per esprimere tutta la delusione dei reduci e la crisi dell’Italia dopo la prima guerra mondiale. E anche alla suggestione potente della “pugnalata alle spalle” con cui Hitler sollevava i Tedeschi dal peso della sconfitta della guerra e dal senso di colpa per le durissime condizioni di pace a cui la Germania era stata sottoposta.

Né Mussolini né Hitler si basavano su un tradimento o un inganno reale, come invece sostennero, con il fine di dare un idolo polemico comune che raccogliesse tutte le facce del malcontento, della rabbia e del malessere di un’intera generazione, quella che porterà in Italia allo squadrismo fascista e al progressivo smantellamento dello stato liberale e in Germania alla (resistibile, di brechtiana memoria) ascesa al potere di Hitler. Antiparlamentarismo e culto della personalità sono altre due componenti comuni ai totalitarismi del Novecento.

“Il senso della misura, la valutazione tattica delle opportunità, la prudenza calcolata, che costituivano le caratteristiche del suo realismo politico, vennero meno con l’iperplasia del culto di sé, e la passione per una mitica e astratta “grandezza” cui si sentiva destinato. Mussolini, suscitatore di miti, (sì, è di lui che lo storico Emilio Gentile sta parlando! A chi stavate pensando?) rimase prigioniero del proprio mito e non seppe più distinguere tra questo e la realtà.”

Hitler, dal canto suo, si presentava come l’incarnazione della volontà del “popolo tedesco”, la sua coscienza e la fonte stessa del diritto e della legittimità. Se leggiamo i messaggi fra Hitler e il comandante della sesta armata tedesca a Stalingrado, il feldmaresciallo Friedrich von Paulus, abbiamo un’altra prova della non accettazione della realtà della sconfitta: “Von Paulus: “Il nemico si è incuneato in molti settori; il fronte è infranto…Ogni altra difesa è priva di senso. La catastrofe è inevitabile.

Per salvare gli uomini ancora in vita prego di darmi immediatamente l’autorizzazione di capitolare.” Hitler: “La capitolazione è esclusa. L’armata adempia al suo compito storico.” (24 gennaio 1943). Vale la pena rileggere la Lettera ai cappellani militari e la Lettera ai giudici scritte da don Milani insieme ai suoi ragazzi, esempi di scrittura collettiva come le nostre Costituzioni democratiche: sia la prima, che “è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia”, sia la seconda, che chiarisce “ciò che è scuola buona”, mostrano l’importanza della conoscenza della storia.

E se studiamo la storia non potremo non essere d’accordo con la conclusione della Lettera ai giudici: “… non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che continuerò ad insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino ad ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. (…) Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima”.

Claudia Vellani