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Le veline in camicetta nera

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Le veline, così chiamate perché dattiloscritte su fogli di carta velina (intramezzati da fogli di carta carbone), contenevano gli ordini per le redazioni su quello che si doveva o non si doveva pubblicare: intimavano, per esempio, di ignorare omicidi, furti, incidenti sul lavoro, fughe di ragazzi da casa, code davanti ai negozi, di selezionare fotografie delle parate militari con “allineamenti impeccabili”, di parlar male dell’Inghilterra. E soprattutto pilotavano la proiezione di un’immagine di Mussolini maschia e gagliarda: “Ricordarsi che le fotografie del Duce non debbono essere pubblicate se non sono state autorizzate”; “Non fare assolutamente cenno del balletto cui ha partecipato il Duce”; “Dire che il Duce è stato chiamato dieci volte al balcone”.

Ironia della storia, quelle “veline in camicetta nera” erano nemiche dichiarate del modello di donna a cui si ispirano le “veline” televisive dei nostri giorni. Tuonava, infatti, il Minculpop: “Vietato pubblicare foto di donne in costume da bagno”; “Non è tollerabile che, specialmente i giornali di moda, pubblichino fotografie di donne magrissime”; “Nei figurini di moda femminile le gonne vanno leggermente allungate oltre il ginocchio”.

Oggi il Minculpop non c’è più. Ma se, per ipotesi, ci fosse ancora, cerco di immaginarmi che cosa potrebbe ordinare agli organi di informazione riguardo alle disastrose alluvioni di questi giorni in alcune zone del Nord-Italia: “Rimpicciolire e relegare in secondo piano le notizie sulle esondazioni dei fiumi. Distrarre l’attenzione del pubblico dagli eventi calamitosi con scoop di altro genere. Ridimensionare al minimo l’entità dei danni e limitare le segnalazioni di eventuali vittime. Mettere in grande evidenza la prontezza e l’efficacia dei soccorsi. Dire che la situazione è sotto controllo. Amplificare la portata dei provvedimenti annunciati dalle autorità in favore delle popolazioni alluvionate. Non parlare di responsabilità politiche governative o delle amministrazioni locali. Dare invece la colpa di quanto accaduto – come fece un tal Giuseppe Saragat nel 1953 – ad un destino cinico e baro”.