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Perché lavoro, riflessioni

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Primo maggio, festa del lavoro. Già, il lavoro. Ma cos’è il lavoro? E perché si lavora? Solo per la sopravvivenza? Ma l’uomo non è un essere ideale, simbolico? Qualcuno che “non vive di solo pane”? Se ci trovassimo nella piazza di una qualunque città, alle otto del mattino, quando tutti corrono frettolosi verso la propria attività, e provassimo a chiedere alla gente perché lavora, ci troveremmo di fronte a risposte differenti, che riflettono, però, le svariate visioni della realtà.

Ad esempio, un “liberista”, basandosi sui tre concetti chiave della sua dottrina economica (la “proprietà privata”, quale proiezione della dignità del soggetto; la “creatività imprenditoriale”, quale espressione delle capacità del singolo; il “libero mercato”, quale meccanismo spontaneo di equilibrio) affermerebbe, probabilmente, che lavora per incrementare il capitale investito, per esprimere creatività e genialità, per affermarsi ed accrescere il suo prestigio sociale.

Diversa sarebbe la risposta di un “marxista”.

Egli, infatti, ha come concetto chiave quello del lavoro come “spazio alienante”, dal momento che l’operaio, diversamente dall’artigiano della società arcaica, cedendo la forza lavoro a pagamento, è come se cedesse la sua stessa essenza. Per questo, il lavoratore di un sistema collettivo non si riconosce nell’opera prodotta e non se ne sente gratificato. “Il prodotto gli sta di fronte come un estraneo, o peggio, come un nemico. Più bello è il prodotto, più costoso è il prodotto… più povero, stanco, avvilito è il lavoratore” (Marx). Sarà per questo che molti sul lavoro sono demotivati e si applicano il meno possibile, riservando il loro entusiasmo per lo “spazio gratificante” della vita privata, come nota Francesco Alberoni.

Per fortuna, però, il “marxista evoluto”, rispetto alla dottrina ottocentesca, possiede un’etica socialmente responsabile e costruttiva, per cui risponderebbe che lavora per migliorare lo stile di vita e rafforzare la sua dignità, per cambiare il mondo in cui vive e per essere d’aiuto agli altri.

Un cattolico “personalista”, infine, (aristotelico – tomista, se vogliamo), cosa affermerebbe? Più o meno, risponderebbe, con Giovanni Paolo II, che “Lavorando, l’uomo realizza se stesso, esplicita le sue capacità, in un certo senso diventa più uomo”. Questo perché “Il lavoro è la dimensione fondamentale dell’esistenza umana; in secondo luogo svolge una funzione sociale, perché ognuno porta un contributo alla comunità e nessuno deve venire escluso o marginalizzato dal circuito del lavoro. Infatti, l’esclusione dal sistema di produzione porta inevitabilmente ad una più ampia esclusione sociale e genera violenza e fratture nella famiglia”.

Probabilmente, un cattolico personalista risponderebbe, allora, che, in primo luogo, lavora per garantire il sostentamento a sé ed alla sua famiglia.

Poi, per un bisogno di significatività, per un dovere di coscienza, per aderire al progetto della sua vita, per migliorare il mondo in cui vive, per essere d’aiuto agli altri.