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Prima di parlare del merito bisogna che tutti siano messi in condizione di imparare

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Da qualche tempo è tornata in auge la riflessione sul ‘merito’. Per decenni questo concetto è stato oggetto di polemiche tra opposte fazioni: contro la meritocrazia che privilegia alcuni a scapito di altri, il livellamento egualitario che dà a tutti le stesse opportunità.

Il tema è tornato di attualità con il governo Meloni ed il ministro Valditara che ha voluto pomposamente rinominare il Ministero dell’Istruzione, Ministero dell’Istruzione e del Merito: è ovvio che già in questa denominazione si evidenzia una scelta politica che però ha poco a che fare con le questioni del merito e della promozione dei talenti; semplicemente si è persa l’ennesima occasione di nominare il Ministero con l’unico titolo che gli spetterebbe e che effettivamente gli pertiene: Ministero della Pubblica Istruzione, perché di questo in effetti si tratta o, almeno, si dovrebbe trattare.

Tornando nel ‘merito’ della questione, dopo la nuova titolazione del Ministero si è nuovamente riaperta la discussione sull’importanza del merito e, fra le tante prese di posizione, l’ultima in ordine di tempo è stata quella del tuttologo Diego Fusaro che rifacendosi niente meno che ad Antonio Gramsci, ha sostenuto l’importanza della valorizzazione del merito per evitare una società in cui vengano invece mandati avanti i parassiti.

Ora, la questione del merito in effetti è complessa ma ridurla a semplice valorizzazione di un presunto talento naturale è nella migliore delle ipotesi, fortemente riduttiva. Posta in questi termini la questione mi ricorda un articolo di – per parlare alla Fusaro – Federico Hegel del 1807 in cui il filosofo si chiedeva chi pensasse astrattamente: la persona incolta, aggiungeva, non quella colta; beh, pur ritenendo Fusaro una persona colta, in questo caso dovremmo dire che nell’esprimere il suo pensiero sul merito sta pensando astrattamente.

Sono pienamente d’accordo sul fatto che l’individuo non debba e non possa in una società democratica essere valutato in base alla casta, al sangue, al ceto o alla sua posizione economica, ci mancherebbe; ma quando si dice di valutare in base al merito che si intende? Non nego che ci siano individui con doti e determinazione caratteriale tale che pur essendo nati in contesti difficili, svantaggiati o depressi abbiano comunque trovato dentro se stessi risorse e motivazioni per andare avanti e conquistarsi un ruolo od una posizione sociale migliore rispetto a quella di partenza, ma purtroppo si tratta di eccezioni – importanti, da valorizzare ed indicare come esempio, certamente, ma sempre e comunque di eccezioni si tratta.

La realtà dei fatti ci indica altro: se nasci in una situazione economica svantaggiata o depressa, per quanto tu abbia talenti naturali, probabilmente quelli rimarranno nascosti o se emergeranno, emergeranno in ambienti e modi di vivere che niente avranno a che fare con la promozione sociale. Spesso – e solamente chi non vuol vedere non lo vede – ragazzi e ragazze protagonisti di un buon percorso scolastico vengono da famiglie che non voglio dire siano necessariamente agiate, ma che sicuramente non sono in condizioni di povertà assoluta come quei 2,18 milioni di famiglie (quasi 6 milioni di individui) di cui ci parlano le rilevazioni ISTAT.

Questa mia riflessione si deve quindi tradurre nell’idea che si è diffusa negli anni ’70 che la scuola dovrebbe essere un luogo di facile promozione per non essere classista? Assolutamente no: chi volesse arrivare a questa conclusione starebbe di nuovo pensando astrattamente. La ‘scuola di massa’ non può e non deve essere la ‘scuola facile’ perché la scuola facile è la scuola classista che lascia tutti nelle condizioni di partenza in cui si trovano e che quindi non stimola ne promuove il miglioramento del singolo e la sua crescita.

La scuola non deve essere facile perché migliorare se stessi, scoprire risorse interiori che non si pensava neppure di avere è possibile solo se ci misuriamo con ostacoli che dobbiamo superare.

Parlare però di merito senza rendere effettivo il superamento degli ostacoli economici e sociali che impediscono di avere le stesse condizioni di partenza significa astrarre un solo aspetto dalla concretezza del reale.

Caro Fusaro, Gramsci era comunista non certo perché voleva che tutti diventassero dottori (magari abbassando il livello di istruzione) bensì perché voleva che tutti fossero messi nelle condizioni economiche di poterlo diventare qualora avessero voluto.

Roberto Rossetti

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