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Quattro soldi, a rate, in ritardo: pensione e liquidazione sono ancora un diritto?

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Il TFR/TFS (Trattamento di Fine Rapporto/Servizio) per docenti e dipendenti pubblici è ancora un diritto garantito? Un diritto, infatti, deve essere immediatamente fruibile. Solo in tal caso può definirsi garantito. In Italia, invece, si aspetta fino a due anni per vederselo corrispondere dallo Stato. A rate. Senza indicizzazione: quindi senza il recupero del potere d’acquisto perduto a causa dell’inflazione.

Alcuni lavoratori hanno dovuto aspettare sette anni.

La liquidazione non è un regalo, ma salario differito

Eppure il TFR/TFS — ricordiamolo — non è un dono: è salario differito. Fu istituito il 21 aprile 1927 (non durante un “regime socialista”, mai esistito in Italia, ma in pieno Ventennio fascista) come indennità proporzionale agli anni di lavoro maturati: indennità dovuta persino agli eredi del lavoratore in caso di sua morte. Un diritto riconosciuto come inalienabile persino dal regime mussoliniano.

La liquidazione è costituita accantonando parte dello stipendio mensile del lavoratore, per tutta la sua vita lavorativa: sono soldi dei lavoratori, non del datore di lavoro, e come tali devono esser conservati e rispettati.

Pagarla in ritardo è anticostituzionale

Fu invece il governo di Mario Monti (colui che percepiva all’epoca un milione di reddito annuo dichiarato), dopo la crescita dello spread nel 2011, a decidere di «dar respiro» alle esauste finanze statali. Col solito sistema: spremere i diritti dei lavoratori. Se ti pago più tardi, senza riconoscerti interessi, ti pago di meno, perché l’inflazione favorisce il debitore, mai il creditore. Creditori sono i lavoratori, debitore chi deve pagarli: verso i pubblici dipendenti, quindi, debitore è lo Stato.

Orbene, il 23 luglio 2024 la sentenza n. 130 della Corte Costituzionale ha definito incostituzionale il differimento della liquidazione. Difatti, «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (Cost. it., art. 36). Ergo, trattenere somme dovute al lavoratore per farle fruttare nei propri forzieri (procurandogli gravi danni, coll’erogargli somme di denaro dal potere d’acquisto ridotto) ricorda — come affermato da quasi tutti i sindacati — il reato di appropriazione indebita (art. 646 CPP).

Se un popolo è addestrato per quattro decenni a digerire di tutto

In Italia però una simile iniquità non fa notizia, anche perché quasi tutti i media — forse non a caso? — non le danno risalto alcuno. Il Paese ha oramai digerito persino l’età pensionabile italiana, tra le (pochissime) più alte del mondo (insieme a quelle di Grecia e Israele), grazie sempre al governo Monti. Addirittura, dopo 14 anni, voci insistenti minacciano ulteriori innalzamenti dell’età pensionabile (sotto il Governo che aveva promesso l’abolizione della “legge Fornero”).

Per favorirci la digestione della nostra futura rovina, ci è stato dipinto l’INPS come un ente in disfacimento, in preda a “crisi strutturali” inesistenti, misconoscendo i suoi attivi di bilancio.

«Salvare l’INPS» svendendone il patrimonio immobiliare?

Nel contempo si faceva di tutto per impoverir davvero l’ente previdenziale, liquidandone le proprietà immobiliari a prezzi da saldi di fine stagione (che non ne ripagavano nemmeno l’acquisto) mediante le “cartolarizzazioni” — nel delirio neoliberista degli ultimi 30 anni — e arricchendo al contempo pochi “fortunati” acquirenti privati — forse neanche ciò a caso? — a danno dell’interesse collettivo. Patrimonio immobiliare, quello INPS, che non apparteneva allo Stato, ma ai lavoratori pubblici e privati (gli unici a non evadere le tasse), perché acquistato coi miliardi da loro versati. Forniva reddito con gli affitti, permettendo appunto di garantire pensioni e liquidazioni.

«Salvare l’INPS» affibbiandogli funzioni assistenziali?

Perché da una parte si sosteneva che l’INPS era in crisi, mentre dall’altra lo si impoveriva? Perché, oltretutto, gli si addossavano pure funzioni assistenziali (come le pensioni sociali), anziché finanziarle con la fiscalità generale e con le tasse sul lusso? Forse per garantire il lusso a chi può permetterselo? Forse per gettare i lavoratori giovani in pasto alle assicurazioni private, in vista della futura demolizione programmata del sistema previdenziale pubblico?

Il tutto mentre le pensioni dei dirigenti d’azienda continuavano ad essere altissime (sempre a carico dell’INPS).

Chi vuole un’Italia ostile ai principi sociali e politici della democrazia?

Copione molto simile a quello della privatizzazione graduale di Sanità e Istruzione, che seguono a distanza la svendita — a privati miliardari e multinazionali estere — dei gioielli di famiglia un tempo gestiti dall’IRI: autostrade, ferrovie, telecomunicazioni, grande industria, grandi banche di interesse pubblico. Chi vuole che questo Paese non sia più una democrazia?

Una democrazia — urge ricordarlo — non è soltanto un sistema politico che garantisce il diritto di voto, di parola e di stampa. Democrazia è un sistema ove la proprietà privata, avendo “funzione sociale” (Cost. it., art. 42) non può esistere a discapito dell’interesse pubblico. In democrazia l’iniziativa economica privata, benché libera, «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (Cost. it., art. 41).

Come possiamo allora, noi italiani, aver tollerato il sabotaggio dell’ente previdenziale che garantiva a tutti il diritto alla pensione dopo il lavoro? La pensione non è forse una questione di utilità sociale, di salute, di sicurezza, di libertà, di dignità? Può una democrazia negare un diritto così basilare con la scusa che i cittadini «muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’INPS»?