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Voti e giudizi per “prepararsi alla vita”; ma il pensiero pedagogico del ‘900 dice che la scuola deve essere essa stessa vita

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Nel dibattito sui problemi della valutazione che si sta sviluppando, compare sempre più frequentemente una considerazione molto condivisa da coloro che sostengono l’importanza, anzi la necessità, del voto: “Gli alunni devono prepararsi alla vita perché, finita la scuola, saranno valutati dovunque. Quindi è bene che si abituino fin da piccoli”.
Per la verità, questo ragionamento ci pare poco convincente soprattutto se lo si fa a proposito degli alunni della scuola primaria e della secondaria di primo grado.

Se vogliamo dirla tutta, l’intero percorso della pedagogia del secolo scorso sembra contraddire questa idea.
Andiamo a vedere, per esempio, cosa scriveva John Dewey, filosofo e pedagogista da cui ha avuto origine gran parte del pensiero educativo del ‘900.
Nel notissimo libro “Il mio credo pedagogico” (la prima edizione risale addirittura al 1897), così scriveva: ”La scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale, la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità nella quale si concentrano tutti gli strumenti che serviranno a rendere il ragazzo più efficacemente partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali; l’educazione è, perciò, un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro”.

Tanto è vero che il pedagogista statunitense aveva ben chiari anche i canoni architettonici degli edifici scolastici che dovevano essere realizzati con un ampio spazio in corrispondenza dell’ingresso in modo che la giornata potesse iniziare con l’”assemblea” della scuola che, secondo Dewey, deve essere una comunità educante in modo concreto e non solo sulla carta. In Italia, complice la cultura gentiliana dominante, il pensiero del pedagogista americano arrivò relativamente tardi, grazie soprattutto al lavoro di Ernesto Codignola che ne fece pubblicare i testi più importanti nelle collane della Nuova Italia da lui dirette affidandone la traduzione e la stesura dell’apparato critico a Lamberto Borghi.
L’idea deweyana di una scuola come vera e propria comunità educante e non solo di “palestra di vita” è stata poi fatta propria da tutto il movimento dell’educazione attiva in tutte le sue forme e declinazioni, a partire da Célestin Freinet fino a Mario Lodi, Bruno Ciari e tanti altri educatori e maestri.