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La scuola distrutta e la parabola discendente del prof ridotto a impiegato senza carriera

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“Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese”: nel sottotitolo del libro “La scuola distrutta” (ed. Mimesis, Milano 2019, acquistabile con la Carta del docente in possesso di tutti gli insegnanti di ruolo), scritto da Stefano d’Errico, segretario nazionale Unicobas, c’è tutto il senso di un testo che ripercorre gli ultimi decenni di discutibili riforme del nostro sistema scolastico. Se ne è parlato martedì 29 ottobre a Roma, nell’aula magna del liceo Classico “Terenzio Mamiani” di Roma, durante il convegno ‘Delenda Schola’.

D’Errico: scuola cenerentola del pubblico impiego

D’Errico si è soffermato sull’impiegatizzazione del docente, venutasi a realizzare 26 anni fa con il Governo Amato, approvando il decreto legislativo n. 29 del 1993, poi interamente confluito nel Testo Unico 165 del 2001: una legge – ha ricordato il sindacalista di base – che ha dato il là al dirigente aziendalista”.

L’attenzione si è quindi soffermata sulla perenne mancata attenzione dei governi verso la categoria dei docenti. Con risultati oggi evidenti: le malattie professionali solo difficilmente riconosciute, il pensionamento portato a 67 anni, nessuna possibilità di fare carriera, organi collegiali con sempre meno poteri, l’appiattimento dei contenuti, l’ascesa dei test Invalsi e della valutazione standardizzata, gli stipendi più bassi d’Europa con gli scatti automatici demoliti.

“Non è vero – ha detto d’Errico – che mancano le risorse. Ad esempio, in Italia, un Paese caratterizzato da un’ampia presenza di coste, solo per le concessioni balneari si evadono 15 miliardi l’anno: se si recuperasse solo una parte, si potrebbe dare alla scuola. È un esempio, ma fa comprendere il senso. Qualche mese fa lo abbiamo detto alla senatrice Bianca Laura Granato, ma senza alcun risultato”.

Secondo il sindacalista Unicobas, “la scuola è fortemente ‘sfortunata’. È la cenerentola del pubblico impiego, perché in Italia si spende meno di quasi tutti i Paesi dell’Unione europea, si hanno l’80% delle scuole non a norma e si paga il personale con stipendi indegni. Servirebbero almeno 20-30 miliardi. E allora che si fa? Nulla. Come sempre”.

D’Errico ha tenuto a dire che le riforme che hanno danneggiato la scuola hanno un filo conduttore: “La politica non è tifo da stadio. La demagogia, le chiacchiere e le promesse degli ultimi trent’anni anni rappresenta l’apice della demagogia. Quello che ha accaduto, non può essere casuale”.

Aprile: c’è un progetto unico e devastante

Anche Pino Aprile, scrittore e saggista, autore dell’introduzione del libro, ritiene che vi sia una sovrastruttura che decide le sorti, in negativo, della scuola pubblica. Aprile ha fatto riferimento all’opera di Francesco De Sanctis, sottolineando che “il sapere è contro il potere, guarda al domani, e allora si contrasta”.

Secondo il giornalista, la scelta di ministri, reputati non all’altezza della situazione, è voluta: vi sarebbe un disegno che prevarica anche i colori degli esecutivi che si susseguono negli anni e non significa nulla se risultano contrapposti. Il risultato, negativo, non sembra cambiare.

“Il progetto che c’è dietro è unico. E questo è devastante, perché è vero che, nell’era di Internet, oggi i giovani non hanno più bisogno della scuola intesa come formazione tradizionale. Ma rimane luogo d’incontro, di relazione, di libertà all’opera. Dobbiamo recuperare il sapere intero e connesso”. Ma non lo facciamo.

“Cosa avevamo prima? Un mondo con grandi disuguaglianze. Oggi – ha continuato il saggista pugliese che vive alle porte di Roma – la globalizzazione porta alla caduta delle disuguaglianze, ma rimane la categoria degli ‘schiavi’. Di recente, il Miur dall’insegnamento della letteratura del Novecento ha escluso tutti gli scrittori più importanti meridionali: nemmeno Salvatore Quasimodo e Grazia Deledda sono presenti. Non credo che sia un caso il fatto che l’Italia sia un Paese che non deve avere un alto livello di cultura: non deve succedere”.

“La curiosità è il motore più potente, ma dobbiamo aiutarla. La scuola deve tornare libera”, ha concluso Aprile.

Maragliano: la tecnologia ingabbia se male utilizzata

Roberto Maragliano, pedagogista e già ordinario a Roma Tre, si è soffermato “sull’importanza delle tecnologie e sul relazionarsi con gli studenti, anche partendo dal loro modo di scrivere. La scuola dovrebbe contenere delle zone ‘franche’, che escano dai protocolli e dalle regole, perchè quasi sempre bloccano sul nascere la creatività formativa”.

Si parla tanto di coding e di pensiero computazione. Di recente, uno studente su tre ha dichiarato di non avere un’aula computer nella propria scuola. Spesso non sono adeguati tecnologicamente e le connessioni sono lentissime. Insomma, nella maggior parte delle scuole l’utilizzo di computer e Lim continua ad essere marginale. È chiaramente un problema di mancate risorse, ma c’è anche un limite culturale.

“La scuola – ha replicato il pedagogista -, è ingabbiata dalla tecnologia. Soprattutto la secondaria. Ma le forme multimediali moderne hanno una funzione diversa dal libro cartaceo. La tecnologia digitale arriva ad essere distruttiva. Perché permette di agire ed interagire con suoni, immagini e testi: serve un’apertura verso questi altri canali di comunicazione. Bisogna lanciare dei messaggi, come le zone ‘franche’. Quella indicata da Don Milani, però, è solo un’alternativa al mondo. Al contrario, la scuola si dovrebbe aprire all’esterno: non è critica e chiusura. Alla primaria è più facile. Poi, alle superiori, per non parlare dell’università, siamo totalmente fuori dal mondo. Bisogna rompere questo meccanismo”.

“In dieci anni – ha continuato Maragliano – le vendite dei quotidiani si sono ridotte di un terzo. È normale che, in questa situazione, si denigri, sulla carta stampata, l’e-book e il nuovo che avanza”.

“Un giovane impara perchè ha curiosità e non va osteggiato. La mia proposta è molto utile, magari relativa ad un quarto del tempo scuola: introduciamo zone ‘franche’, dove non vigono le regole sui contenuti da portare all’esame, si passi del tempo libero privo di regolamenti e costrizioni. L’idea è dei gesuiti, che trovarono la soluzione nel teatro e nella danza: così ci si apriva all’esterno, teorizzando il sapere elaborato. Oggi, chiunque può editare e diffondere un libro: perché non consentire ai ragazzi di farlo? Certo, gli editori probabilmente non sarebbero favorevoli”, ha concluso il pedagogista.

Zaccagnini: la musica per pochi

Guido Zaccagnini, storico della musica e saggista, si è soffermato sulla “cultura musicale diffusa: è un valore si può creare introducendo la storia della musica a partire dalla scuola media, meglio ancora della primaria. Solo così, i nostri giovani, studiando Puccini e Verdi, potrebbero dare anche un senso ai testi e alle musiche di Tiziano Ferro”.

Il paradosso, è stato fatto osservare, è che molte famiglie sembrano avere propensione per la musica, avvicinano i figli ad uno strumento, pagando di tasca loro corsi e progetti. Esistono alcune scuole musicali, dove c’è una selezione.

“È indiscutibile che in Italia via sia una propensione alla musica: pensiamo agli eventi paesani, alle feste musicali, alle bande, alle scuole popolari. Il bisogno è diffuso. Tuttavia, occorre distinguere tra bisogno di élite e di massa. Mozart è rivolto a pochi, Antonello Venditti ad un pubblico di base e più vasto”.

“Anche la figura dello stregone, dello sciamano, del sacerdote era collegata alla musica, ma ad appannaggio di pochi. Al Conservatorio di Santa Cecilia esiste la prova di accesso, ma non viene nessuno e quindi di fatto non c’è. Sempre perchè la frequenza di una scuola superiore di musica interessa a davvero pochi giovani. Ed è da lì che occorre ripartire”, conclude l’esperto.