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Le classi differenziali e l’integrazione degli alunni con difficoltà: un po’ di storia

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Integrazione scolastica degli alunni andicappati: questi erano i termini con cui si aprì il dibattito che a metà degli anni “60 incominciò a farsi sentire per permettere ai ragazzi con disabilità di entrare nella scuola di tutti, togliendoli cosi dalle classi speciali dove erano costretti. 

L’idea inziale, come tutte le grandi problematiche sociali, economiche e politiche, veniva della Berkeley University il cui principio guida e di ricerca era quello di lottare contro tutte forme di emarginazione compresa dunque anche la possibilità di liberare i ragazzi con difficoltà dalle classi speciali, dove erano rinchiusi,  in sintonia d’altra parte con quanto la legge Basaglia, entrata in vigore il 13 maggio 1978, sanciva e cioè la chiusura dei manicomi, segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici.

Dunque l’integrazione degli alunni nelle classi comuni fu un tema che si accese anche in Italia dove fra l’altro fior di pedagogisti, studiosi dell’età evolutiva, compresi medici psichiatri e psicologi, nonché neuropsichiatri, fisioterapisti e medici furono tutti d’accordo nel perorare la causa della soppressione delle classi speciali, dove venivano raccolti i ragazzi con difficoltà e dunque autistici, con sindrome down (allora erano chiamati mongoloidi), cerebrolesi, subnormali epilettici e così via.

E noi abbiamo visto, intorno al 1966, una di queste classi speciali dove una ventina di questi ragazzi erano tenuti a bada da una maestra con l’ausilio alvolta di un bidello. Nessuna attività specifica era prevista per loro, tranne una sorta di intrattenimento con dei giochini, mentre si incontravano gli occhi spenti di qualche bambino down, di autistici che scuotevano la testa come a cercare un appiglio e poi altri di cui la memoria ci restituisce poco. 

Ci è rimasta soprattutto però quel senso di oppressione greve e pesante che si aggrappò subdola nel petto, di fronte a qui ragazzi che non parlavano e che ci guardavano con occhi senza vitalità, come noi li guardavamo come se fossimo dentro a un barraccone, non in una scuola. 

Una abiezione, ma che all’epoca era ritenuta normale, mentre la gran parte dei bambini disabili erano rinchiusi in  casa o in istituti particolari.

Quando dunque l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità fu approvata, con la legge 517 del 1977, per molti fu un atto di progresso civile  e una grande vittoria, nonché una conquista sociale che qualificava nello stesso tempo  la nostra scuola, mettendola all’avanguardia in questa specifica problematica. In modo particolare la legge stabiliva il principio dell’inclusione per tutti gli alunni disabili della scuola elementare e media dai 6 ai 14 anni. Una scelta di coraggio e di lungimiranza ma che costrinse gli addetti  a elaborare, affrontare e approfondire analisi teoriche, prassi e strategie operative, modelli di intervento e di collaborazione e percorsi di formazione adeguati. 

E imponeva pure l’obbligo di una programmazione educativa da parte di tutti gli insegnanti della classe, che venivano affiancati da un insegnante specializzato per il “sostegno didattico” ed una programmazione amministrativa e finanziaria concordata fra Stato, Enti locali, Unità sanitarie locali.

Come sempre tuttavia è capitato in Italia, insieme alle grandi conquiste, non c’è stato il relativo supporto logistico, cosicché vennero subito subito a mancare li insegnanti specializzati, di cui si chiedeva l’implementazione, mentre si cercava di attrezzare enti ad hoc e università, specialisti, talvolta pure senza specializzazione, per dare qualche rudimento teorico ai pionieri di questo del tutto nuovo insegnamento.

Non ci addentriamo nello specifico, né vogliamo riprendere vecchie polemiche, ma chi oggi sostiene il ripristino di quelle classi non ha chiaro cosa significa lasciare un bimbo down, per esempio, insieme con altri ragazzi con altre difficoltà, o un autistico accanto a un ragazzo con menomazione fisica e così via.

Perorare le classi differenziali perché la presenza di ragazzi con difficoltà nelle classi comuni non consente di fare didattica adeguata, penalizzando il resto degli alunni, è una di quelle affermazioni ingiuriose per la mission stessa che una società avanzata intende mettere in atto.