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COP28 vittoria dei petrolieri? Educazione civica e democrazia: come rispondere agli studenti delusi?

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Secondo non pochi osservatori la COP28 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023, tenutasi all’Expo City di Dubai dallo scorso 30 novembre al 13 dicembre) è stata una sostanziale vittoria dei petrolieri. I nostri studenti più avveduti si chiedono come ciò sia stato possibile, visti i rischi certi e le catastrofi annunciate cui i combustibili fossili stanno condannando l’umanità. Càpita ai docenti di sentire gli studenti più informati affermare che nel mondo non c’è democrazia, perché i miliardari impongono politiche contrarie agli interessi della collettività. Come affrontare questo tema nel curricolo di educazione civica?

L’urgenza di far cessare le emissioni climalteranti

Si trattava di limitare le emissioni di gas serra. Dalla scorsa estate fino allo scorso febbraio, ogni mese è stato il più caldo della Storia. Almeno dagli anni ‘50 la totalità dei climatologi ha l’assoluta certezza che gas, petrolio e carbone condannano il pianeta a diventare invivibile per noi umani. Quanto accade dal 1980 — la crescita progressiva e sempre più veloce della temperatura globale — era stato previsto nei dettagli già 70 anni fa, e ciò era ben noto persino alle multinazionali del petrolio. Alla COP8 (presieduta dagli Emirati Arabi Uniti, la cui ricchezza sono petrolio e gas) hanno partecipato 70.000 persone, tra cui studiosi, ecologisti, capi di Stato, ricercatori.

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La lotta ai climalteranti affidata a chi li produce

Alla fine — non a caso — i più raggianti erano i petrolieri; tra cui il presidente designato della COP28 Sultan Ahmed al-Jaber, ministro della tecnologia avanzata e dell’industria degli Emirati, nonché amministratore delegato dell’ADNOC (Abu Dhabi National Oil Company, massima azienda petrolifera — di Stato — degli Emirati stessi).

Quasi tutti gli stati del pianeta tuttora finanziano estrazione e commercializzazione dei combustibili fossili con soldi pubblici: almeno 7.000 miliardi di dollari. Una buona notizia sarebbe stata la fine di questi finanziamenti: ma allora i petrolieri non avrebbero certo esultato, dovendo rinunciare ad una cospicua — seppur minoritaria — parte dei loro mostruosi introiti annui.

70 anni di allarmi e prove scientifiche per ottenere solo un’ammissione

Altra buona notizia sarebbe stato un accordo per cessare le perforazioni, ridurre le emissioni, compensare le aziende che sperimentano alternative ai fossili. E invece, di tutto ciò, nulla di nulla. Si continua a fondare sui fossili l’economia di stati interi: pertanto, pur riconoscendo che bisogna eliminarli, pena la catastrofe globale, si scrive solennemente che sì, s’ha da fare; senza però specificare quando (se non con un generico “entro il 2050”), senza stabilire tappe, tempistica, metodi, mezzi, finanziamenti, politiche concrete, sanzioni per i renitenti.

Transition away from fossil fuels è la formula usata, decantata da tanti come “rivoluzionaria”, come enorme progresso rispetto a un’epoca in cui di lasciare il petrolio e il carbone non si poteva neanche parlare. Certo è però che, se per arrivare a cotante illuminate parole ci son voluti 70 anni, è impossibile dire quanti decenni o secoli ci vorranno per vederle tradotte in realtà.

A tutt’altre faccende affaccendati

Nel frattempo il surriscaldamento globale non aspetta; anzi, accelera anche più che nelle previsioni peggiori, spiazzando persino gli scienziati più pessimisti. La maggior parte delle persone non se ne preoccupa minimamente, presa da calcio, San Remo, diete dimagranti, cura del look, visibilità sui social. Ci si scandalizza semmai dell’imbrattamento dei monumenti da parte degli attivisti per il clima, che tentano disperatamente di far capire al mondo la propria disperata paura di un futuro sempre più nero.

Futuro oscuro; non perché sia oramai impossibile invertire la rotta, ma perché non interessa a nessuno farlo: né tra i potenti — ben consapevoli ma non disposti a rinunciare a nessuna fetta della propria torta — né tra la stragrande maggioranza dei cittadini, ipnotizzati da un modello consumistico ormai ipertrofico e incontrollabile, che ne ottunde facoltà mentali, desideri, potenzialità cognitive.

Siamo davvero in democrazia?

Cosa può fare la Scuola? Sono spesso i giovani a porre le domande più imbarazzanti, cui è difficile rispondere senza ammettere che — almeno in parte — hanno ragione. Specialmente quando chiedono: «Noi viviamo nel mondo definito “libero” e “democratico”; ma come definire tale un sistema in cui, pur potendo noi parlare, manifestare e votare, le decisioni di interesse globale sono sempre a favore di una ristrettissima minoranza di ultramiliardari? Ricchi sfondati, costoro lucrano su tecnologie antiquate, su materia fossile bruciata per produrre energia, come si faceva 200 anni fa, inquinando e condannandoci al disastro di un futuro ormai imminente. Perché nessuno Stato li ferma? A che serve allora lo Stato democratico? “Democrazia” significa solo poter votare, ma senza nessuna conseguenza concreta, dal momento che gli interessi e il benessere del 99% dell’umanità non contano nulla?».

La meglio gioventù

Chi si sente di rispondere che hanno torto, lo faccia. Gli studenti che ci pongono queste domande sono i nostri ragazzi e ragazze migliori, quella “meglio gioventù” cui non sarebbe giusto dare risposte tranquillizzanti ma sostanzialmente false. Essi pongono domande legittime, cui non è facile contrapporre certezze.

Sta ai nostri rappresentanti nei parlamenti, ai ceti politici e dirigenziali del pianeta, a chi ha in mano le leve del potere, ascoltarli e cambiare la rotta del mondo, prima che la nebbia in cui navighiamo ci avvicini troppo al giorno dell’apocalisse.