Home Archivio storico 1998-2013 Nostre inchieste La geografia insegnata dal migrante

La geografia insegnata dal migrante

CONDIVIDI

“L’America? Dov’è l’America?”, chiedeva, nel racconto di un autore contemporaneo, il vecchio contadino ad un giovane che si preparava a partire ai primi del 900 dall’interno della sua Sicilia verso il nuovo continente. L’America allora era lontana, tanto lontana da non riuscirne a misurarne la distanza: un giorno di carretto? Due? Una settimana? Ma poi c’era il mare da attraversare: e cos’è il mare? Chiedeva sempre il vecchio, che aveva conosciuto solo l’ondeggiare delle spighe di grano nel latifondo, al giovane pronto a partire.
Nessuno dei due sapeva infatti, all’epoca, dove ondeggiasse il mare, né dove e quanto fosse distante l’America. Ma all’epoca ancora era molti i contadini che non riuscivano a capacitarsi, quando il maestro lo raccontava ai loro figli nei catoi trasformati in aule scolastiche, come potesse essere la terra rotonda, visto che il sole albeggia all’Albanese e tracolla a Butera e come mai non si precipitasse a testa in giù.
Ma anche durante la Guerra d‘Africa, quando i contadini partivano sulla propaganda fascista e allettati da una misera paga, la maggioranza di quei militi-terroni nulla sapeva di quel continente, né dove e quanto distante fosse dalla loro casa e dal loro terreno.
E oggi, sanno i nostri alunni dov’è l’America e dov’è l’Africa e i concetti base di geografia astronomica? A parere del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, “occorre modificare il modo di insegnare la geografia” che si dovrebbe studiare ascoltando le testimonianze di chi proviene da altri Paesi, visto che già oggi gli studenti apprendono la disciplina non dai libri ma dai compagni che raccontano le loro città e i loro costumi.
Come è noto, Profumo ha parlato pure di cambiare il modo di insegnare la religione che ha fatto aprire un fuoco di sbarramento da tutti gli angoli della nazione, rimasta silente però sull’insegnamento della geografia, forse perché si pensa che tutti gli studenti sappiano dov’è l’America e l’Africa e pure della sfericità della terra.
Eppure qualche dubbio occorre averlo sulle reali conoscenze dei nostri alunni, perchè, da uno sguardo ai programmi usciti dal riordino della Gelmini, si vede subito che le ore di geografia nelle scuole sono state sostanziosamente ridotte nel biennio dei Licei e negli Istituti Tecnici, mentre è scomparsa dai Professionali. Poco male, pare di capire, vista l’assenza di critiche, esplose però per la religione, e visto pure che una carta geografica è possibile sostituirla con il Gps con cui si conoscono immediatamente le distanze invece di calcolarle in scala, mentre con uno smartphon si prenota perfino la cabina a mare, che poi si chiami Adriatico o Ionio o Tirreno poco importa.
E poco importa se il compagno di banco, dalla pelle un po’ più oscura, dice di venire dallo Sri Lanka o da Samarcanda o da Aleppo o dal Congo. Uno sguardo sul tablet e lo spazio esce dal tempo e dai confini, recupera i chilometri ma perde la storia di quel paese; e se lo colloca sullo schermo se ne smarriscono i termini che poi sono, sia le parole, i termini appunto, e sia i confini geografici. Già la geografia, quella che si scruta sull’Atlante e sulle mappe, coi confini, i territori e le orografie per carpirne i rilevi economici, ma pure i costumi e le tradizioni, basati sulle vicinanze e le assimilazioni delle frontiere naturali, e pure la lingua coi suoi termini stranieri.
La fine del racconto di quell’autore siciliano è molto simile alle parole del ministro Profumo (“ascoltare le testimonianze di chi proviene da altri Paesi, visto che già oggi gli studenti apprendono la disciplina non dai libri ma dai compagni che raccontano le loro città e i loro costumi”), perché quando il giovane ritornò in paese, non trovando più quel vecchio dalle domande curiose, narrò l’America agli amici e poi ai sui figli che così seppero, seppure sulla magia delle sole parole, quanto fosse distante l’America, quanto fosse immenso il mare e come la gente americana vivesse, quali usi e costumi praticasse e che lingua strana parlasse: le strade larghe li chiamano “Street” e i giovani “Boy”.
S’accorciava il mondo, col migrante siciliano dell’epoca, come si sta accorciando oggi, con la sempre più massiccia presenza di stranieri, sui banchi delle nostre scuole alle quali manca la stessa cosa che mancava ai figli dell’emigrato: una carta geografica e un mappamondo e pure un manuale che ne definisca i reticolati.