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Quello stop di Obama ai tagli dei prof che ci fa sentire ancora peggio

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Fa pensare l’invito rivolto il 18 agosto dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ai legislatori locali e nazionali nel corso del tradizionale discorso settimanale e riportato, in sintesi, su questa testata giornalistica: gli Stati, ha spiegato il Presidente democratico, dovrebbero fare dell’istruzione una priorità dei loro bilanci, anche in periodi di difficoltà finanziaria. I licenziamenti a cui si riferisce Obama sono di grande portata: dal 2009 a oggi gli Stati Uniti hanno infatti perso oltre 300mila posti di lavoro nel settore scolastico, principalmente a causa dei tagli di bilancio a livello locale e statale.
Obama ha anche ricordato di aver presentato lo scorso anno al Congresso una legge volta a scongiurare nuovi licenziamenti di insegnanti e a riassumere quanti hanno già perso il lavoro. Ma la norma è stata bloccata, con i repubblicani che hanno accusato il Presidente di spese fuori controllo.
“Nel momento in cui l’America è in aperta competizione con il resto del mondo nel campo dell’istruzione – ha detto il Presidente – questi tagli costringono i nostri figli in classi affollate, portano a cancellare programmi di asili nido e materne e riducono la settimana scolastica e l’anno scolastico. Questo è esattamente il contrario di quanto dovremmo fare come Paese: gli Stati dovrebbero fare dell’istruzione una priorità dei loro bilanci, anche in periodi di difficoltà finanziaria. E il Congresso dovrebbe collaborare, perchè tutto questo riguarda tutti noi”.
Le parole di Obama rimbalzano in Italia come una sorta di appello al buon senso: non c’è prospettiva di crescita, dice in sostanza il primo cittadino Usa, se un paese moderno non investe nell’istruzione. E i 300mila tagli attuati nell’ultimo triennio pesano come un macigno. Appaiono veramente troppi per poterli giustificare come un atto necessario per abbattere le spese inutili e far risanare i conti.
Come appaiono tanti, veramente troppi, quelli attuati in Italia nello stesso periodo: tra i 100mila e i 150mila posti in meno. La differenza è che in questo triennio non ci sono mai state delle prese di posizione istituzionali così forti per dire basta a questa sottrazione di forze e risorse destinate all’istruzione dei nostri giovani: dalle massime istituzioni dello Stato italiano sono giunte delle generiche allusioni al rilancio degli investimenti. Ma mai degli impegni o delle indicazioni per garantire che la stagione dei tagli si concluda il prima possibile. Dal presidente del Consiglio, prima Silvio Berlusconi ed ora Mario Monti, non sono mai giunte chiare ammissioni sull’ingente riduzione di posti di lavoro nel comparto scuola. Come nessuna allusione è arrivata sulla necessità di fermare l’abbattimento delle risorse ad una scuola pubblica che deve sempre più spesso ricorrere ai finanziamenti spontanei delle famiglie e dei privati per assolvere ormai anche alle spese di ordinaria amministrazione e manutenzione.
In questi giorni chi ha a che fare con la scuola – personale, studenti, famiglie – avrebbe dovuto festeggiare, perché la famigerata legge 133 di fine 2008 stava per concludere i suoi effetti a lungo termine. Invece rieccoci ancora a commentare altri tagli e “giri di vite”. Stavolta inseriti nella cosidetta spending review: dalla trasformazione in Ata di inidonei e Itp alla drastica riduzione dei docenti impegnati all’estero, sino alla ricollocazione forzata dei soprannumerari in ruoli addirittura nemmeno troppo attinenti alle loro abilitazioni.
Probabilmente quelle di Obama saranno anche le parole di un presidente a caccia di nuovi consensi. In vista della riconferma. Non sappiamo se, effettivamente, la riduzione dei tagli agli organici di prof e impiegati scolastici americani si arresterà. Ma lo stesso discorso vale per i nostri premier. Impegnarsi nel rilancio dell’istruzione pubblica italiana significherebbe avvicinarsi, tra studenti e personale, a circa nove-dieci milioni di famiglie. A meno che non si voglia pensare che, come l’opinione pubblica, siano ormai governati dallo scoramento. E che, a mali estremi, ci si possa rifugiare dietro il parafulmine della crisi internazionale.