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Annullabili le dimissioni, ma solo se è provata l’incapacità di intendere e volere

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Ne consegue che l’atto delle dimissioni è annullabile solo se il dichiarante provi di trovarsi, al momento in cui è stato compiuto, in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive – anche parziale, purché tale da impedire la formazione di una volontà cosciente – dovuto a qualsiasi causa, anche transitoria.
A queste conclusioni è giunta la Corte di Cassazione che con sentenza n. 11900 dell’11 maggio scorso ha però precisato che l’esistenza dello stato di incapacità non si può desumere semplicemente dalla crisi depressiva, e spetta, in ogni caso, al dipendente l’onere di provare la condizione di infermità.
Infatti, se da un lato, ai fini dell’annullamento del negozio, non è necessaria una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà psichiche del soggetto, dall’altro, nel caso di specie, per la Cassazione il giudice di merito ha correttamente riscontrato la mancanza di prova, anche di carattere presuntivo, che al momento delle dimissioni la lavoratrice fosse incapace di intendere e di volere, ritenendo superfluo anche l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio, in quanto non idonea ad accertare quale fosse l’incapacità di intendere e volere al momento della presentazione delle dimissioni. La verifica peritale ex post non è, dunque, sufficiente a provare lo stato di incapacità: dall’espletamento del mezzo istruttorio, infatti, per la Corte potrebbe derivare solo la prova probabilistica circa lo stato psichico della dimissionaria, ma non la prova dell’esistenza di uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive, tale da impedire la formazione di una volontà cosciente.