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Discipline tecnico-scientifiche e genere maschile

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I laureati in materie tecnico-scientifiche in Italia nel 2010 sono stati il 12,4, ma solo il 9,9% sono femmine e il 14,8 maschi, diversamente dalla Finlandia dove su 24,2% del totale il 13% sono femmine e il 34,2 maschi.
Ma al di là delle statistiche, rimane il problema dell’occupazione e dei motivi per cui in Italia c’è questo divario nella scelta del percorso di studio. Sicuramente il gap risale all’infanzia e alle scelte dei giochi.
Infatti le bambine iniziano inconsapevolmente a tracciare un solco che le separerà dai maschi per tutto il corso della loro vita per “colpa” delle mamme che ricalcano gli stereotipi di genere vissuti durante la loro infanzia.

Se i papà trascorrono il tempo con i figli di entrambi i sessi facendo le stesse attività (disegno, giochi di movimento, videogiochi, ecc), il 52% delle mamme gioca con le figlie a fare i mestieri di casa mentre con i figli maschi disegna o fa giochi da tavola.
Morale, come spiegava il sociologo Robert K.Merton già nel 1948, si tratta di una profezia che si auto avvera. Quegli stessi bambini, una volta diventati grandi, daranno per scontato che le femmine facciano i mestieri delle donne, mentre i maschi costruiscono i ponti.
Praticamente dai tempi di Ulisse (per scoprire Achille, vestito in abiti femminili per non farlo partire in guerra contro Troia, portò sia giocattoli per femmine che armi, ben sapendo che il giovane avrebbe scelto queste ultime) poco è cambiato, anche se in Usa siano state avviate campagne per ribaltare il concetto atavico (e sessista) su cui poi si basa tutta la divisione dei compiti lavorativi anche nell’età adulta.
Se le pressioni sociali e familiari, scrive il Corriere della Sera, nella scelta della scuola/università si fanno sentire indifferentemente sia nel caso dei maschi sia delle femmine, le ragazze appaiono invece fortemente penalizzate laddove la famiglia di origine sperimenti difficoltà finanziarie o le spese per la frequenza scolastica siano elevate.
Solo il 12% dei maschi abbandona la scuola superiore a seguito di queste ragioni, a fronte del 25-27% delle ragazze. L’incidenza tra le ragazze sale addirittura al 67% durante il corso di studi universitari, rispetto al 58 dei ragazzi. Ovvero, se in famiglia le risorse economiche sono limitate, più facilmente si punta ancora oggi sul figlio maschio rispetto alla figlia femmina (anziché sulle reali capacità e potenziale dell’uno o dell’altro).
Ma la situazione peggiora anche dopo l’università e il percorso di studi. Infatti i ragazzi vengono retribuiti il doppio delle ragazze, cosicchè sono più precarie ancora prima che si ponga il problema della conciliazione lavoro/famiglia.
Il 51% delle ragazze tra i 15 e 24 anni ha un contratto precario, rispetto al 40 dei maschi, incidenza che scende al 26 nella fascia d’età 25-34 anni, rimanendo tuttavia superiore di 11 punti percentuali rispetto ai ragazzi.

Ma non solo, a fronte di un 18% di maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti percentuali nel caso delle femmine, considerato che gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle ragazze risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro.

Alcuni ambiti formativi, tradizionalmente ad alta intensità e presenza femminile, come quello letterario, linguistico, giuridico, chimico-farmaceutico, geo-biologico e dell’insegnamento, presentano tassi d’impiego più bassi, remunerazioni più contenute, e un gap salariale tra maschi e femmine più elevato. Altri, come il comparto medico-psicologico ed economico-statistico evidenziano un migliore equilibrio, mentre la formazione tecnico-scientifica appare decisamente sottovalutata nelle preferenze delle ragazze, nonostante offra maggiori possibilità di collocamento e migliori salari (quasi 1.500 euro netti mensili a 5 anni dalla laurea).
La strada per uscirne? Gli input devono arrivare da famiglia, università e aziende.