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Emergenza sicurezza o emergenza educativa?

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E’ di questi giorni la tragica notizia dell’assassinio di Luca Sacchi, un giovane ragazzo ucciso di fronte ad un pub nel tentativo di difendere la sua fidanzata, forse in un contesto di compravendita di sostanze stupefacenti.
Subito si è aperto il dibattito sulla sicurezza delle nostre strade e dei nostri quartieri anche di quelli apparentemente più tranquilli e vivibili come l’Appio Latino.
Quello che mi sento di poter affermare con certezza è che a Roma, o in Italia, non c’è un’emergenza sicurezza; o almeno non più che in altri momenti storici recenti.

La vera emergenza è quella educativa.
Sembra che gli assassini di Luca Sacchi siano due ragazzi di 21 anni. Perché due ragazzi così giovani e già noti alle forze dell’ordine per piccoli reati hanno la libertà di girare con una pistola? Perché ritengono che girare con una pistola dia loro forza, sicurezza e onnipotenza? Da chi hanno ricevuto questi disvalori? In che contesto hanno vissuto? Da quali famiglie provengono? Cosa hanno fatto per loro le scuole, i servizi sociali, il territorio?
Sono domande che afferiscono a diversi settori della vita politica e sociale di una città e di un paese intero, ma se vogliamo andare alla radice dei problemi non possiamo che rivolgere lo sguardo a questi elementi fondamentali per la crescita di un giovane cittadino.

E allora chiediamoci: cosa possiamo fare per prevenire questi fenomeni? Abbiamo ancora una possibilità/potere nei confronti dei nostri giovani? Difficile dare risposte a questi interrogativi: dal canto mio mi permetto solo di riflettere brevemente di fronte alla tastiera del pc, anche alla luce della mia esperienza professionale all’interno delle istituzioni scolastiche.
I due ragazzi di ventuno anni non si sono inventati questa loro dimensione così… dal nulla; l’hanno probabilmente “coltivata” nel tempo, magari iniziando nelle scuole elementari a ridacchiare di qualche compagno più sfortunato; poi nelle scuole medie a infastidire qualche altro compagno obbligandolo a consegnargli la merenda o qualche euro; e poi alle superiori a frequentare qualche giro di spaccio, tanto per provare. Nel frattempo forse qualche bravata nei pub, la sera, o allo stadio, la domenica. Il tutto condito e impreziosito dalla pubblicazione delle proprie gesta sui social, per mostrare a tutti la propria onnipotenza.

Anche nelle nostre scuole ci sono ragazzi di dodici – tredici anni fortemente a rischio sotto questo punto di vista. Alcuni pongono già in essere atteggiamenti devianti, oppure da adulti precoci. Si vantano sui social di non aver alcun timore di picchiare, o di fumare, anche sostanze proibite; si fanno fotografare imbracciando armi e mostrando coltelli, affermano senza pudore che la vita è tale solo se fatta di soldi, sesso, fumo, pasticche.

L’acronimo ACAB è un motto indiscusso e qualcuno ha già avuto a che fare, in un modo o nell’altro, con le forze dell’ordine.
Molti altri ragazzi, pur non compiendo le stesse scelte, però li ammirano (forse perché li temono) ma certamente ne subiscono l’influenza e spesso preferiscono farsi trascinare piuttosto che porre un paletto.
Si tratta di fenomeni che sempre di più interessano indistintamente ragazzi e ragazze, i primi spesso da protagonisti; le seconde spesso da ammiratrici, talvolta da sostenitrici, prova ne sono le valanghe di likes che ottengono le foto o i video in cui si ostentano atteggiamenti violenti o devianti.
Non faccio fatica ad immaginare tutti questi ragazzi (ripeto di dodici – tredici anni!) che in poco tempo diventano delinquenti comuni. Il passaggio dalla richiesta di due euro per la merenda a venti euro per la dose è lì dietro l’angolo; il passaggio dalla sigaretta elettronica (spesso accettata dai genitori) allo spinello acquistato nei giardini del quartiere è facilissimo; il passaggio dalla foto fatta con le armi al loro utilizzo è comunque molto breve.

Tutto questo interroga la comunità degli adulti, siano essi genitori o insegnanti; cosa spinge questi ragazzini a inseguire esperienze così dure, così forti, così devianti? Possibile
che non gli abbiamo mai fatto vedere un altro mondo, un’altra vita, un’altra esperienza positiva? Possibile che debbano trovare fuori ciò che non hanno trovato dentro le mura domestiche o le aule scolastiche? Cosa cercano questi ragazzini? Ogni tanto mi è capitato di parlare con qualcuno di loro, più a rischio: molti di loro sono molto arrabbiati con il mondo degli adulti; molti dichiarano di avere un pessimo rapporto con i loro genitori; altri soffrono o hanno sofferto terribilmente, molto di più di quanto si possa immaginare, la solitudine, l’abbandono di uno dei genitori, o, a volte, di entrambi i genitori; spesso quest’abbandono non è solo fisico e domestico, ma soprattutto affettivo ed emotivo. Da questi abbandoni, da questi silenzi, da questi vuoti questi ragazzini non sanno risollevarsi se non andando a cercare libertà, sballo, adultità precoce e incontrollabile.

Riempire i vuoti, dare senso alle loro domande, ascoltare e condividere, trascorrere tempo, mostrare esempi e valori per cui vale la pena vivere. Queste cose vanno fatte sempre, da tutti gli adulti, già dalla più tenera infanzia, se vogliamo far crescere generazioni di giovani che possano guardare al loro futuro con più fiducia, senza sentire il bisogno di trovare nei comportamenti devianti l’appagamento dei bisogni affettivi più essenziali.
L’emergenza educativa non è una novità di questi ultimi anni, se ne parla già da almeno due decenni, ma sembra che si stia facendo poco e che, anzi, non accenni ad attenuarsi.
Ed è chiaro che non dipende dai giovani ma dagli stessi adulti, da come gli adulti riescono ad offrire principalmente modelli di vita esemplari e credibili. A giudicare da quanto si vede nella politica, nelle tv e nei social e da quanto si deduce dalle storie di molti ragazzi e ragazze si direbbe che di strada da percorrere ce ne sia ancora molta.
E soprattutto: di adulti che offrano modelli di vita esemplari e credibili ce ne sono ancora? Io penso di sì. Chi cerca trova.

Andrea Caroni