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Giornata della Memoria, le contraddizioni del nostro tempo

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Penso oggi non sia semplice celebrare, se così si può dire, ancora una volta la “Giornata della Memoria”.

Perché, anzitutto, non è più scontato cosa voglia dire memoria. Eppoi, perché oggi gli avvenimenti della storia non parlano a tutti negli stessi termini, non dicono verità di fatto, ma rimangono sempre interpretabili. Quasi a dire che, al dunque, c’è sempre qualcuno che ripete il solito “dipende dal punto di vista”. Dando ragione, così, al vecchio Nietzsche per il quale non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni. Forse non accorgendosi che anche parlare di interpretazione è una interpretazione, dunque smentibile.

Il nostro, dunque, è il tempo delle infinite opinioni, di più o meno argomentate, le quali sempre “dipendono-da” un qualsiasi punto di vista.

Chiamiamolo relativismo, nichilismo, poco importa.

Importa che, quando si tenta di dialogare, di ragionare, ci si rende conto che non ci sono “evidenze” da cui partire, da condividere, per poi, in forma logica (logica come criterio di significanza), produrre una qualche conoscenza. Tutto è invece opinione, diventa opinabile.

Lo vediamo in medicina, nella giustizia, nel campo dei diritti e dei doveri, nelle fedi religiose, nella politica, nelle diverse socialità.

Si capisce così come sia difficile, oggi più di ieri, pensare in modo serio a fare formazione, scuola, università.

Anzi, a scuola la materia più difficile, più complicata, è proprio “Storia”. E non matematica, informatica o latino. Purtroppo, non sempre gli stessi docenti se ne rendono conto.

Mi immagino, dunque, quest’anno come potranno essere accolte le proposte dedicate alla Giornata del 27 gennaio, ma anche al Giorno del Ricordo del 10 febbraio, sulla tragedia delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata; mi immagino come alcuni accoglieranno le iniziative previste dalle scuole, dalle istituzioni, dalla società civile.

Con una parola: “che noia”.

Tentare di fare memoria, dunque, del male assoluto della Shoah, del dolore innocente, continuerà sempre ad interrogare le persone di ogni tempo.

Nonostante le sue contraddizioni, come hanno richiamato alcuni docenti a proposito delle tragedie del 7 ottobre e degli oltre 40.000 morti di Gaza, o in Ucraina.

Rispetto a queste ed altre contraddizioni si rischia dunque l’oblio.

Un pericolo che ci riguarda tutti, perché tocca il “senso dell’umano” che è oltre anche le stesse categorie politiche, economiche, sociali, istituzionali. Con una domanda che non può non interrogarci di continuo: quale è il senso del limite, che si traduca poi in diritti e doveri per tutti, limite che è il senso di una etica della responsabilità foriera di una fraternità sociale che porti pace e giustizia?

Credo sia questo filo della memoria, che va ripreso e ripensato anche in questo 27 gennaio, la nostra àncora di salvezza.

Un modo per tenere a bada i peggiori istinti ideologici, quelli che hanno mostrato il peggio della nostra umanità nel corso del ‘900. E che rinascono purtroppo in ogni guerra anche oggi, soprattutto nelle “guerre totali” dei tempi moderni. Nelle 56 guerre oggi attive, conosciute o non.

La memoria dunque non è solo un diritto, ma prima ancora un dovere che ci coinvolge tutti, sperando che la storia possa sempre insegnare a chi verrà dopo di noi che è solo con questo esercizio della memoria che possiamo porre un limite e liberarci dalle possibili perversioni della nostra umanità, quelle che hanno fatto dire ad un intero popolo “quelle non sono persone”. Che si sia trattato allora degli ebrei, o oggi di altre tradizioni storico-culturale-religiose, poco importa.

Perché si tratta di una perversione? Perché nega il principio di universalità della nostra umanità. Perché ogni persona, al di là di ogni differenza, come ripeterebbe anche oggi un tedesco come il grande Kant, è sempre fine e mai un mezzo. “Fratelli tutti”, per riprendere Papa Francesco.

Le differenze, dunque, non toccano mai la sostanza del nostro essere, e gli aspetti storico-culturali-religiosi non sono un limite, ma una ricchezza. E se uno volesse costruire un moderno muro, dovrebbe, per dirla con Calvino, pensare non solo a chi resta dentro, ma anzitutto a chi resta fuori.

Questa la grande forza della nostra tradizione culturale che la scuola, la cultura e l’università sono chiamate a rinverdire ogni giorno con la formazione.

Per descrivere linguisticamente queste differenze in passato è stata utilizzato il termine “razza”. Tanto da ritrovarla, all’art.3, ancora presente nella nostra Costituzione del 1948: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Come possiamo notare, si parla ancora di “razza”, cosa che oggi invece non si usa più. E non si usa più per evitare ogni equivoco linguistico e concettuale.

Anzi, stupisce il fatto che non sia stato cancellato e sostituito con altri termini meno equivoci. Forse per la formulazione positiva della seconda parte dello stesso articolo 3: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In sostanza, possiamo dire che, a scanso di equivoci, nell’art.3 è il concetto di uguaglianza ad essere il vero fondamento della nostra Repubblica.

Perché allora non correggere questo art.3? Già durante la Costituente (1946-47) l’Unione delle Comunità Istraelitiche italiane aveva avanzato la “sommessa richiesta di sostituire la parola stirpe a quella di razza, lasciando a quest’ultima cani e cavalli”. Ma altri già allora ritennero invece giusto mantenere la parola per ricordare un fatto storico, a presidio di una memoria che deve rimanere sempre vigile.

Un modo di far entrare la storia nella nostra Carta fondamentale.

L’art.3 è diventato così nella storia repubblicana, possiamo dire, l’architrave della nostra “costituzione sociale”, perché ha indicato la via per migliorare le condizioni sociali e politiche del nostro Paese.

Se il termine “razza” era presente all’art.24 nello Statuto albertino, in vigore dal 1848 al 1947, l’utilizzo politico del termine è di responsabilità del fascismo, attraverso le leggi razziali (settembre 1938-luglio 1939). Leggi precedute dal documento “Il fascismo e il problema della razza” del 25 luglio 1938, da cui, in particolare, il “Manifesto della razza” apparso sulla rivista “La difesa della razza” il successivo 5 agosto. 

Forse il riferimento alla “razza” all’art. 3 è una paradossale sentinella che costringe tutti a riflettere per evitare l’oblio.