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Milleproroghe, il testo non è blindato: i sindacati tornano a premere sulle pensioni

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Il decreto legge Milleproroghe continua ad essere al centro delle attenzioni dei sindacati della scuola. La notizia che l’esame di Palazzo Madama, dopo il via libera della Camera, non avverrà su un testo blindato ma si potrebbe concretizzare attraverso modifiche in extremis, ha mandato in fibrillazione i rappresentanti dei lavoratori.
Come ci si poteva aspettare l’argomento più dibattuto è quello del mancato slittamento al prossimo 31 agosto dei contributi utili per andare in pensione col vecchio sistema (chi nel 2012 ha raggiunto quota 96 accumulando un’anzianità contributiva di almeno 35 anni di contributi e 61 anni di età oppure 36 e 60), precedente alla riforma Fornero.
A riassumere le ragione dei lavoratori della scuola è stato Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola, il quale ha ricordato che docenti e Ata “hanno da sempre un’unica ‘finestra’ di uscita dal servizio, che coincide con la fine dell’anno scolastico e l’inizio del successivo. Fissare al 31 agosto, e non al 31 dicembre, la data cui fare riferimento per mantenere, se posseduti, i previgenti requisiti di accesso alla pensione eviterebbe di creare discriminazioni tra il personale, esposto a trattamenti diversi nel corso del medesimo anno scolastico”.
Quello delle pensioni negate è un argomento che trova d’accordo tutti i sindacati. Anche Marcello Pacifico, presidente dell’Anief, ritiene fondamentale “inserire un emendamento che renda merito a quanto da noi richiesto alle commissioni di competenza della Camera. Un punto – ha aggiunto Pacifico – peraltro condiviso dal Governo in un ordine del giorno già approvato”. Quindi vederlo tradotto in emendamento al Senato “sarebbe una conquista di equità”.
L’anomalia del comparto Scuola, oltre che dell’Afam, è stata evidenziata anche in un documento inviato da Cgil, Cisl e Uil alle massime istituzioni di competenza: i sindacati confederali sottolineano che se non si arriverà ad approvare la deroga “c’è il rischio che si producano sempre nuove iniquità e si moltiplichino le condizioni di immotivate differenziazioni tra lavoratori che si trovano sostanzialmente nelle stesse condizioni”.
Ma ci sono anche altri argomenti che interessano i sindacati. Come il mancato inserimento, sempre nel Milleproroghe, della norma che “sgonfierebbe” il valore legale della laurea: nelle intenzioni del Governo, però mai tradotte in articolo di legge a seguito delle forti proteste di studenti, parti sociali ed opinione pubblica, c’era la volontà di minimizzare le varietà di titoli e di votazioni accademiche. Una decisione che avrebbe pesato non poco ai fini della partecipazione dei futuri concorsi pubblici nella pubblica amministrazione. Il provvedimento è stato “congelato”, in attesa di conoscere gli esiti di una consultazione pubblica che dovrebbe partire a breve. Nel frattempo, però, i componenti del Governo rimangono fermi sulle proprie idee: attraverso un intervento pubblicato su alcuni quotidiani, il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, ha spiegato che “per rimuovere gran parte del ‘valore legale’ è sufficiente, per iniziare, vietare l’utilizzo del voto di laurea come titolo (o ridurne al minimo il peso) e vietare avanzamenti di carriera per effetto della sola acquisizione della laurea”. Giarda ha poi sottolineato che oggi il “titolo per giudicare l’idoneità o le capacità di laureati provenienti da università diverse può generare disparità di trattamento perchè attribuisce lo stesso peso a contenuti formativi potenzialmente diversi. Sarebbe come far pagare una uguale imposta sul reddito a soggetti che hanno un reddito diverso”.
Di diverso avviso, oltre che gli studenti, si sono espressi alcuni sindacalisti della scuola. Per il Presidente dell’Anief “il Ministro farebbe bene a capire il motivo per cui i nostri giovani non riescono a trovano un’occupazione. Non è un caso se Federico II già dal XIII secolo aveva fondato l’Università di Napoli, con il preciso scopo di preparare la classe dirigente che avrebbe amministrato il Regno di Sicilia. Non si capisce pertanto – ha concluso Marcello Pacifico – perché dopo 900 anni il peso della cultura debba essere cambiato”.