
Fanno discutere, e anche in modo molto animato, le parole del ministro Giuseppe Valditara sulla questione della personalizzazione della didattica.
Secondo il Ministro, infatti, personalizzare la didattica, facendo leva anche sulle possibilità offerte dalla Intelligenza artificiale, potrebbe contribuire in modo significativo sui risultati degli apprendimenti riducendo anche i divari territoriali e sociali che oggi si registrano.
Nella nostra pagina FB i commenti si sprecano; quasi tutti i nostri lettori intervengono soprattutto per contestare un punto delle parole del Ministro che ha ribadito che la causa principale del mancati apprendimento sarebbe da ricerca proprio nella assenza di personalizzazione più che nelle classi numerose.
Era del tutto inevitabile che una simile affermazione avrebbe scatenato le critiche di molti docenti e così è stato.
Ad ogni modo la questione solleva più di un problema.
Intanto c’è da chiedersi se sia proprio certo che l’intelligenza artificiale favorisca davvero la personalizzazione degli apprendimenti (termine di cui peraltro sarebbe anche bene chiarire il significato preciso). Anzi, per essere ancora più chiari: esistono oggi evidenze scientifiche che dimostrino l’utilità della IA ai fini della personalizzazione dei percorsi formativi?
Qualche dubbio, in proposito, è lecito averlo, se non altro per la semplice ragione che, ad oggi, le esperienze di impiego nella didattica della IA sono relativamente poche ed è quindi difficile poter tirare delle conclusioni.
Quando al fatto che la personalizzazione avrebbe effetti di gran lunga migliori rispetto alle dimensioni delle classi, si dovrebbe ricordare che, almeno nel primo ciclo, i “Piani di studio personalizzati” vennero introdotti 20 anni fa – almeno nella scuola primaria – con il decreto legislativo 59/2024 firmato dall’allora Ministra Letizia Moratti e francamente non risulta proprio che da allora si siano visti benefici straordinari negli esiti degli apprendimenti.
La domanda allora é: a non funzionare è stata la personalizzazione o la modalità con cui è stata concretamente applicata nelle scuole?
E ancora: le rilevazioni Invalsi di questi anni hanno evidenziato effetti benefici della personalizzazione?
Il punto della questione è che i risultati dell’intervento formativo si possono misurare nei tempi lunghi e, soprattutto, tenendo conto molte variabili, non tutte, peraltro, direttamente controllabili dal sistema scolastico.
La personalizzazione gioca un ruolo importante, ma certamente non esclusivo, così come sarebbe ingenuo pensare che gli apprendimenti possano migliorare indefinitamente solo con la diminuzione del numero di alunni: l’apprendimento, infatti, è legato ad aspetti affettivi e relazionali e non c’è bisogno di tirare in ballo Vygotski per capire che si impara anche grazie al continuo confronto con il gruppo classe; e laddove il confronto si limiti a poche unità anche gli apprendimenti potrebbero risultarne compromessi.
Senza dimenticare che ci sono decine, centinaia di ricerche che hanno ampiamente dimostrato le correlazioni esistenti fra esiti dei processi formativi e dati di contesto sociale (livello socio-culturale delle famiglie, disponibilità di servizi culturali nel territorio, varietà degli ambienti di apprendimento, qualità dell’edilizia scolastica).
Per non parlare della rilevanza del “clima della classe” (e persino dell’intera istituzione scolastica) che potrebbe giocare un ruolo non del tutto disprezzabile.
La formazione delle giovani generazione è, da almeno tremila anni, un problema molto complesso (forse il più complesso di tutti) e certamente non ha soluzioni semplici.