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Studiare non paga più? Dottori di ricerca trattati come neolaureati

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Gli studi sull’alta formazione continuano a scoraggiare l’investimento ad impegnarsi nello studio fino all’università ed oltre: tra le ultime ricerche in ordine cronologico vale la pena riportare quella molto indicativa dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che nel Mezzogiorno ha scoperto come i laureati che hanno appena terminato il dottorato di ricerca si ritrovano con problemi lavorativi non molto diversi da quelli dei neolaureati o addirittura dei semplici diplomati: a sei mesi di distanza dalla fine dei corsi, il 67% dei dottori di ricerca ha in effetti in tasca già un contratto di lavoro, però quasi mai questo risulta remunerativo e a tempo indeterminato.
Secondo l’indagine – commissionata dai Ministeri dell’università e della ricerca e del lavoro e previdenza sociale – solo il 30% dei dottori di ricerca ottiene infatti un contratto a tempo indeterminato, il 20% tempo determinato, il 50% di tipo atipico. Lo stipendio, inoltre, è molto vario: si va dai 973 euro di chi resta all’università, ai 1.800-1.900 di chi lavora in un policlinico o clinica universitaria o in ospedale, passando per i 1.103 per chi insegna in istituti scolastici, 1.283 in enti di ricerca o 1.264 in azienda privata, 1.300 di chi è nella pubblica amministrazione.
Tra i più penalizzati figurano i laureati specializzati che intendono rimanere in ambito universitario o che vogliono fare ricerca: “l’occupazione nel comparto della ricerca – spiega l’Isfol – è scarsamente remunerata, soprattutto quella in ambito accademico, dove è impegnato il 43% dei dottori, la retribuzione delle attività di ricerca non riflette l’investimento in capitale umano. I dottori di ricerca accettano compensi bassi e forme contrattuali poco strutturate pur di valorizzare le proprie competenze e fare ricerca”.
I laureati con dottorati non si contraddistinguono, tuttavia, per disponibilità a trasferirsi, sia a livello nazionale che all’estero: tra i dottorati solo il 16% circa degli occupati ha trovato lavoro al di fuori della regione in cui risiedeva quando si è iscritto al corso. Circa la metà di questi ha trovato lavoro in una regione del centro-nord (8,1%), il 4,6% in una regione del Mezzogiorno diversa da quella in cui risiedeva e il 3,5% all’estero.
La maggior parte di coloro che si sono spostati all’estero lavora presso un’università (50%). Nel centro-nord ci si sposta invece prevalentemente per lavorare in un’impresa privata (48,5%). Appena il 14% dei dottori di ricerca trova invece lavoro in un’impresa privata; ed un quarto di questi è inquadrato nel settore ‘Ricerca e sviluppo’.
Secondo l’istituto di ricerca vi sarebbe ancora uno scarso collegamento degli enti attuatori con il sistema delle imprese: “la sfida – commentano dall’Isfol – è allora rafforzare il legame tra capitale di eccellenza e mercato, tendenza già presente in alcune regioni del Nord del paese dove anche se il settore pubblico rappresenta l’area di impiego prevalente, non è trascurabile e appare tendenzialmente crescente nel tempo la quota degli occupati nel privato, 26%”.
I dati resi noti dall’Isfol sono davvero preoccupanti, soprattutto se si considera che il nostro Paese non sembra valorizzare i pochi studenti che arrivano all’apice della carriera formativa: in Italia riescono infatti a conseguire il dottorato di ricerca appena 71 individui su un milione di abitanti; davvero poco se si pensa ai 505 della Germania, ai 176 della Francia e i 160 della Spagna. E se sono questi i presupposti non varrebbe nemmeno la pena, almeno nel breve periodo, fare tanti sacrifici rimanendo sui libri fino a trent’anni e anche oltre.